Capitolo quinto

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(19 – lorn: abbandonata)

     Abbandonata – così Marinette si era sentita quando una notte Chat Noir le aveva dato appuntamento al loro posto e proprio lì le aveva stracciato il cuore come mille fogliettini di carta.

 Razionalmente, Marinette aveva sempre saputo che doveva esserci un motivo – eppure la vocina che le ricordava che forse era tutta colpa sua era un sussurro fastidioso sempre presente.

 «Ti amo anch'io», gli aveva detto un giorno, prima che se ne andasse – un mormorio tanto flebile che si era chiesta se Chat Noir l'avesse sentito.

 Dopo quella confessione poche cose erano cambiate, erano sempre gli eroi di Parigi e finché Papillon rimaneva un pericolo le loro identità dovevano rimanere segrete. Marinette non aveva mai davvero pensato al dopo perché portava con sé cose belle e cose brutte. Papillon non minaccerà più Parigi, si ripeteva – ma cosa ne sarà di noi?

 Cosa n'era stato?

 Cos'era rimasto?

 Solo il ricordo, che faceva ancora più male. E su questo Parigi sapeva essere davvero maligna – amava ricordarle che Chat Noir non c'era più.
 In metro e per le strade meno curate della città ci si imbatteva in decine e centinaia e migliaia di murales e affreschi di artisti di strada, i negozi di giocattoli continuavano a vendere figurine, zaini, action figures e mille altri gadget, e ad amplificare le domande che tutti ancora si ponevano ci pensava il telegiornale.

Che fine ha fatto Papillon?

Chi c'era dietro la maschera?

Perché Ladybug è rimasta e Chat Noir no?

 Alle prime due domande non aveva risposta nemmeno lei, e nonostante ancora si rimproverasse per non essere stata più svelta, l'incognita che più faceva male era l'ultima. Quella di Chat Noir era un'assenza di cui non conosceva le ragioni e il non sapere le scavava un vuoto in petto così profondo che alle volte temeva di perdersi dentro se stessa e non uscirne più.

 Si tocco il vuoto con una mano, lì dove, nascosto dagli abiti, riposava l'anello di Chat Noir attaccato a una catenina – non sapeva se custodirlo all'altezza del petto contrastasse il vuoto o contribuisse solo a renderlo più grande, più cattivo, più vuoto.

 «Marinette?»

 La vocina malinconica di Tikki la fece sentire in colpa.

 Scosse la testa e cercò di sorriderle. «Scusa, lo so che non ti piace quando lo faccio.»
 Le prime volte pronunciare il nome di Chat Noir era diventato una blasfemia. Tikki lo chiamava lui, come se un pronome fosse abbastanza potente da racchiudere tutto ciò che aveva significato, significava e avrebbe significato finché avesse avuto vita nei suoi ricordi.

 Marinette, lei non lo nominava mai. Quando Tikki le chiedeva se stava pensando a lui, la risposta era sempre quella – no.

 Ma ormai mentire era uno sforzo vano. Marinette era entrata nella fase di accettazione, quella in cui si tenta con tutte le forze d'ancorarsi al presente per non affogare nel passato – solo che il passato sa essere ancora più maligno e ritorna quando meno te lo aspetti (una parte era già tornata).

 «Mi ha fatto piacere rivedere Adrien, oggi.»

 Tikki le regalò un sorriso di supporto. «Avete parlato per ore con assoluta normalità. E gli hai detto quel che provavi!»

 «Sono solo in ritardo di cinque o sei anni.»

 «Hai rimpianti?»

 Marinette si osservò i polpastrelli come fossero la cosa più interessante del mondo.

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