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Decisi di lavarmi e andare a dormire, non c'era più altro da fare che spegnere i pensieri e indirizzarmi a letto, dopotutto erano le tre di notte ed esattamente dopo tre ore e mezza mi attendeva la sveglia per andare a lavoro e onestamente con l'umore sotto ai piedi non avevo minimamente voglia di vedere i miei colleghi l'indomani ma purtroppo mi toccava.
Non erano persone cattive, forse lo ero io perché sin dal giorno uno non ero stata in grado mai di dargli una possibilità, di aprirsi normalmente con me e di parlarmi del più e del meno ma per loro era normale forse perché pensavano non mi andasse, forse perché avevo dormito male oppure perché era soltanto una mattinata no ma la verità era che non mi andava a genio nessuno, forse soltanto il figlio del capo, Lee Minho perché sembrava essere proprio come me, con lo sguardo perso chissà dove, quasi inanimato e con lo scazzo facile ogni tre per due e quasi lo ammiravo perché i figli di papà, soprattutto i prediletti che lavorano nell'impresa di famiglia dovrebbero tecnicamente essere dei palloni gonfiati con la puzza sotto al naso ma Minho sembrava un normalissimo dipendente con la guerra in testa proprio come me ma se c'era qualche dipendente che invidiavo era Han Jisung perché qualsiasi giorno fosse, qualsiasi ora del giorno fosse era sempre carico di energia manco fosse una pila duracell ma quell'energia a volte stancava e dava sui nervi, soprattutto quando iniziava ad urlare a caso durante le ore più pesanti della giornata e si placava soltanto con uno sguardo fulminante di Minho.

Sembrava quasi pendesse dalle sue labbra e che gli stesse sotto ai piedi ma probabilmente aveva soltanto paura di essere licenziato e onestamente non mi interessava neppure ma era divertente vederlo abbassare la testa e ripetere di continuo « scusami, non lo faccio più » e dopo esattamente tre secondi riprendere più forte di prima zittendosi però da solo ricordandosi dell'occhiata malefica ricevuta poco prima.

Lavorare con loro dopotutto non era un problema, restare in ufficio era la parte del mio lavoro che preferivo di più perché era quello in cui avevo interazioni umane ma non a grandi linee, non come quando dovevo recarmi a scuola e passare ore interminabili con dei bambini per spiegargli le cose più odiose possibili di matematica o quando addirittura dovevo svegliarmi anche di domenica mattina per organizzargli feste in paese e parlare con le mamme del più e del meno. Quella era sicuramente la parte che odiavo di più ma mi toccava se volevo guadagnarmi da vivere ogni giorno e quindi mi feci forza, mi lavai, mi misi di corsa il pigiama, salì sopra e mi fiondai a peso morto nel letto nella speranza che quella sveglia non suonasse mai ma il momento non atteso arrivò molto prima del previsto, come se quasi avessi chiuso gli occhi appena.

Il sole non voleva minimamente saperne di svegliarsi, proprio come me e la pioggia invece sembrava avere la stessa energia di Jisung perché non cessava neanche un attimo e fu lì che capì di essermi svegliata in una nuova giornata di merda.

« Che giornata! » pensai sbadigliando cercando le pantofole ai bordi del letto per poi scendere di sotto a prepararmi un toast e un rapido caffè americano solubile giusto per darmi una piccola scossa post sbronza.

« La mia povera testa! » urlai dal frastuono che stavano iniziando ad emettere entrambe le tempie e al solo pensiero della voce squillante di Jisung alle otto del mattino presagivo già una catastrofe come mille colpi di gong ripetuti ogni millesimo di secondo.

« Voglio morire. Macchine investitemi stamattina! » continuai ad esclamare mangiando il più rapidamente possibile correndo poi a lavarmi e a mettere il primo abbinamento scomposto e inesistente che se avesse visto Enzo Miccio avrebbe dato fuoco a colpi di bollicine.

Avevo indossato un pantalone nero, stivaletti neri, maglione nero più largo di casa mia e giubbotto altrettanto nero, tanto per essere in tema con il mio umore.
Presi la borsa, mi spruzzai rapidamente un tocco del mio inseparabile Chanel numero 5 più in bocca che sugli abiti data la fretta e corsi fuori casa più pronta che mai urlando al primo taxi che mi capitò a tiro.

Salì dettando subito le coordinate all'autista e inevitabilmente, accomodandomi meglio, notai già un passeggero a bordo di quel taxi ed io odiavo tantissimo condividere il taxi con qualcuno come del resto odiavo qualsiasi cosa nella vita e ironia della sorte volle che quel ragazzo non molto alto ma con le spalle larghe quanto le ante del mio armadio fosse un mio nuovo collega.

« Stiamo andando nello stesso luogo. » disse.

« Non ti ho mai visto prima. » gli dissi con sufficienza.

« Sarà quasi un mese che lavoro con voi, certo, so che è poco ma io mi ricordo di te, sei Jieun, il braccio destro di Jisung, io sono nell'area contabile con Minho. Mi chiamo Changbin. » disse fiero ma io in quel momento volevo letteralmente sparire.
Era quasi un mese che lavorava con noi, per giunta nella stanza di fronte alla mia e quella di Jisung ma non lo avevo notato mai, ero proprio una persona orribile che non guardava in faccia a nessuno e quindi presi a sorridere in modo imbarazzato cercando di sforzarmi ironica e fingere che stessi scherzando.

« Si, certo, come potevo non riconoscerti, stavo scherzando. » dissi, voltandomi poi fuori dal finestrino.

« Condividiamo anche il cognome. Ti chiami Seo Jieun, giusto? » continuò ad esporsi.

« Si, appunto, certo, come potevo dimenticarmi di te, abbiamo lo stesso cognome, si. » dissi, sperando che quel viaggio finisse presto in modo tale che in ufficio non avremmo parlato più e così fu, pagammo il taxi e arrivammo in sede, salutammo cordialmente tutti e ci posizionammo nei nostri rispettivi uffici e stranamente ad attendermi trovai la pace dei sensi perché Jisung era in ritardo così ne approfittai per cercare di rilassare i miei pensieri ma qualcosa o meglio qualcuno cambiò i miei piani.

Eyes | HWANG HYUNJIN Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora