1. Lavinia

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Eva aspettava il suono della campanella appoggiata al muro sporco e scrostato della scuola. Attorno a lei un gran casino, ragazzi che urlavano, puzza di fumo.
Quel baccano la frastornava e le generava ansia, avrebbe voluto indietreggiare nella parete fino a fondersi con essa e sparire.
Guardava in basso, quando un'ombra alla sua sinistra entrò nel suo campo visivo. Alzò gli occhi ed era lei, Lavinia.
Lavinia le sorrise e la salutò con un cenno della testa, poi andò avanti a raggiungere le sue compagne di classe.
Anche Eva le fece un cenno, ma forse si era mossa troppo tardi e Lavinia nemmeno lo aveva visto.
La campanella suonò e un'orda chiassosa e urlante si fece largo dentro la scuola. Eva si lasciò trascinare dentro dalla massa, in mezzo a urti e spintoni.
Una volta giunta in mezzo al grande e lungo corridoio, malvolentieri si avviò alla sua classe.

***

Eva guardò l'orologio sopra la lavagna. Erano le 10. "Grazie a Dio la mattinata passa cento volte più veloce del pomeriggio" pensò.
Ancora mezz'ora e ci sarebbe stato l'intervallo. La giornata era fredda ma fuori c'era il sole, probabilmente nel cortile avrebbe trovato Lavinia.
Finalmente la campanella suonò annunciando l'intervallo. Assieme a un'altra fiumana di studenti, Eva andò verso il cortile. Una volta fuori la accolse il solito puzzo di sigaretta e l'aria fredda e pungente d'inizio inverno.
Si guardò attorno, e finalmente la vide. Stava seduta su una panchina con sue compagne e compagni di classe, e rideva.
"Uggh", pensò Eva. C'era troppa gente attorno a lei. Avvicinarsi a Lavinia mentre era in mezzo a ragazzi e ragazze era troppo rischioso. Di solito se erano tutte ragazze si limitavano a guardarla male e a farle qualche domanda sarcastica, se erano ragazzi la ignoravano o si sussurravano battute su di lei guardandola sghignazzando.
Ma ragazzi e ragazze insieme sarebbe stata una combinazione esplosiva. Non aveva voglia di essere umiliata. Così passò davanti alla panchina facendo bene attenzione a non andarci troppo vicino ma di fare in modo che Lavinia la vedesse e capisse. Di sottecchi lanciò uno sguardo al gruppetto attorno alla panca e vide che tra una risata e l'altra gli occhi di Lavinia si erano posati su di lei.
Allora andò avanti e girò l'angolo dietro la palestra, dove c'era una piccola rientranza con una scalinata che dava su un portellone antincendio. Eva si sedette su uno degli scalini e appoggiò le guance alle nocche delle dita, incantandosi a guardare i ghirigori delle crepature del pavimento sconnesso di quella parte del cortile.
«Ehi!»
Eva guardò all'insù. Da dietro l'angolo era sbucata finalmente Lavinia, ed era da sola. Le scappò un mezzo sorriso, che per fretta di mascherare si trasformò in un mezzo ghigno.
Eva stava lì sulle scale, insaccata nei suoi vestiti troppo larghi. Le piaceva indossare questi abiti sformati che non facevano capire molto di come fosse il suo corpo. Pantaloni larghi e un felpone color indaco schiarito, da cui sbucava il suo viso paffutello e i suoi capelli ricci scuri a cespuglio.
Lavinia invece aveva sempre un abbigliamento strano, particolare, da streghetta alternativa. Cappotti viola, stivali in stile medievale, sciarpe grosse e spesse del colore di una lingua di fuoco, pantacollant aderenti che sottolineavano la sua figura snella contornata da lunghissimi capelli castano chiaro.
«Che ci fai qui da sola? Mi hai vista sulla panchina e sei filata via» disse Lavinia sorridendo.
Eva tacque. Ogni volta non sapeva come spiegare a Lavinia la sua vergogna. Non sapeva come spiegarle che aveva paura degli altri. Che aveva paura che i suoi amici avrebbero riso di lei.
Lavinia non sembrava tipo da poter comprendere quel genere di problemi. Non sembrava immaginare come i suoi amici avrebbero trattato Eva. Erano troppo "normali" per lei, lei era troppo "strana" per loro.
«Che sguardo duro che hai...»
«Eh? Ah, io non... Ero solo sovrappensiero».
«Non hai voglia di parlarmi? Vuoi che ti lasci da sola?»
"No", pensò Eva "Sì, sì che voglio parlare con te" ma non riusciva a dire nulla. Sentiva come un blocco che le strizzava lo stomaco.
«Lavi! Lavinia!» qualcuno chiamò.
Lavinia guardò Eva e fece un gesto con la mano indicando dietro di sé, le rivolse un ultimo sorriso e tornò dai suoi amici.
Eva sospirò e tornò a far sprofondare le guance nelle sue mani chiuse a pugno. Restò lì da sola fino al suono della campanella.

***

«Ti va di venire a casa da me?»
Così se n'era uscita Lavinia un pomeriggio all'uscita da scuola.
«Che cosa?»
«Ti va di venire a casa da me?» aveva ripetuto.
«Beh...» Eva non sapeva che dire. Non capiva benissimo perché Lavinia la invitasse. Forse per lei era una cosa "normale"? O comunque una cosa non poi così importante, che si poteva fare con leggerezza?
Eva non avrebbe mai invitato nessuno da lei. L'idea che qualcuno della scuola potesse vedere la sua camera la faceva sentire nuda ed in imbarazzo.
«Dai, Eva, vieni».
Lavinia la guardava con quei suoi occhi grandi e scuri.
Eva deglutì e si sentì arrossire. Sentirla pronunciare il suo nome nel mezzo di una richiesta formulata in maniera così intensa l'aveva sconvolta. Alzò e abbassò le spalle, come a intendere che accettava l'invito. Lavinia battè le mani e si avviarono insieme alla fermata del pullman.
Lavinia abitava in una casa normale, in un quartiere normale. L'ascensore era stretto e l'imbarazzo di Eva ormai non era più calcolabile. Aveva il terrore di parlare, di respirare per paura di avere l'alito cattivo. A Lavinia sembravano non pesare troppo i suoi silenzi. Parlava lei, parlava di scuola, delle sue compagne, dei suoi genitori.
Eva ascoltava ma faceva fatica a seguire i suoi discorsi. All'apparenza era impassibile ma dentro di lei si stava scatenando una tempesta.
Finalmente il viaggio in ascensore finì e arrivarono al quinto piano. Ci fu un po' di goffaggine nell'aprire gli sportelli ed uscire per via dello spazio angusto. Camminarono sul pianerottolo e arrivarono davanti al portone di Lavinia, che era ancora addobbato con decorazioni di Natale.
«Ti piacciono? Le ho fatte io!» disse entusiasta «So che avrei dovuto toglierle dopo l'Epifania, ma mi dispiaceva metterle già via...»
Eva guardò le decorazioni sul portone: erano dei ritagli di tessuto, c'erano delle renne marroni (molto carine), un albero di natale con addobbi e palline, una stella cometa, un Babbo Natale, e poi, l'attrazione principale: una ghirlanda verde e rossa con i tessuti incollati in maniera da apparire tridimensionali.
«Sì... Belle...» biascicò alla fine.
«Ti ringrazio! Psst, non c'è nessuno in casa, mia madre rientra tardi».
E ciò detto infilò le chiavi nella toppa della porta.
La casa era immersa nella penombra. Lavinia tirò su qualche serranda e fece accomodare Eva in cucina.
«Che cosa vuoi bere? Tè, succo, coca cola, acqua...»
«Acqua va bene, grazie»
Lavinia poggiò due bicchieri sul tavolo e li riempì d'acqua, poi da un portapane estrasse dei biscotti e li poggiò fra lei ed Eva.
«Sono alla cannella. Li ho fatti io!» disse fiera e sorridente.
Timidamente, Eva ne prese uno e diede un morso. Era buono e fragrante, e il pensiero che era stata Lavinia a farne l'impasto la imbarazzò.
Stavano lì, a mangiare biscotti in silenzio, e Lavinia sembrava tranquilla, sorridente e sicura, per niente tesa dal fatto che Eva non parlasse.
Eva intanto si sentiva completamente fuori posto. Che ci faceva lì? Le sembrava di guardare la scena da fuori: lei strana e bruttarella, ingolfata nei suoi vestiti troppo larghi, i capelli disordinati e poco puliti, la pelle acneica, accanto a una come Lavinia.
«Vieni Eva, ti faccio vedere camera mia!»
La camera di Lavinia era piena di colori. Appesi alle pareti e sui mobili e sulla libreria c'erano tutti i suoi manufatti, e su degli scaffali teneva delle minuscole piantine grasse.
Eva si sedette ai piedi del letto. L'odore di Lavinia, così amplificato nella sua stanza, le riempiva le narici. Lavinia si era tolta il cappotto viola e stava con un maglioncino lungo di un arancione tenue, e gli aderenti leggins verde scuro.
Si tolse anche i Dr. Martens rossi che aveva ai piedi.
Intanto Eva non si era ancora spogliata, e cominciava a sudare sotto il felpone.
Lavinia era bellissima. Aveva un corpo slanciato, un portamento elegante e delicato, e allo stesso tempo quasi bambinesco.
«Vuoi darmi la felpa?»
Eva ci mise un po' a capire cosa intendesse dire, poi goffamente si sfilò la felpa e Lavinia gliela prese tra le mani, gliela rimise al dritto e la appoggiò sulla sedia davanti alla scrivania. Poi si mise a sedere accanto a lei.
«Mi piaci.» disse Lavinia.
«Che...»
Lavinia fece un movimento in avanti ed Eva si ritrovò la bocca di lei a pochi centimetri dalla sua. Lavinia la guardava negli occhi. Poi scoppiò a ridere e si tirò indietro.
«Hai uno sguardo così duro...»
Lavinia mise una mano sul dorso di quella di Eva, e la accarezzò piano.
Voleva ritrarsi, ma non riusciva a muoversi. Non capiva cosa stesse succedendo. A Lavinia piaceva... lei? Non voleva che la toccasse, non si sentiva degna. Si sentiva sporca e disgustosa. A differenza di Lavinia che appariva così profumata e pulita, Eva sentiva ogni parte del suo corpo sporgere all'infuori come un'estensione putrida di sé: i brufoli, i peli spessi e scuri, il suo sudore pungente.
Doveva andarsene da lì.
Eva si alzò e Lavinia scattò su con lei. Ringraziò per i biscotti incespicando nelle parole, disse che doveva andare. Lavinia la guardava con apprensione. Certo, disse, figurati; l'accompagnò alla porta e restò a guardarla mentre scendeva decisa giù per le scale.

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