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Perché era notte
ed è sempre così lontana la luce
delle stelle.
Perché eravamo vivi
e i vivi desiderano
qualche dolcezza.
Franco Arminio

Riccardo si svegliò che era ancora notte, la stanza era buia e irriconoscibile e i muri parevano incombere sul letto matrimoniale, troppo grande per una sola persona. Si sentiva andare a fuoco e sudava freddo sul cuscino, faticava a respirare, stringeva le lenzuola ruvide tra i pugni, cercando di calmarsi.
La sensazione era simile a quella che aveva provato quella notte al bar, insieme ad Alessandro, ma adesso Alessandro non c'era e l'oscurità era densa ed opprimente come la nebbia delle sere invernali – si sentiva soffocare.
Cercò a tentoni il comodino per accendere la luce, ma non lo trovò – era come se tutto attorno a lui fosse scomparso – e poi qualcosa gli afferrò il polso, qualcosa di freddo e viscido, rantolante.
Provò ad urlare, ma il grido che uscì dalle sue labbra era muto; si mise in ginocchio per togliersi di dosso quell'essere disgustoso, piangendo e singhiozzando – e tirò, lottando con quella mano gelida, con il suono terribile che sentiva nelle orecchie; tirò, tirò, tirò – e poi qualcuno gli stava toccando la fronte, mani morbide e calde, mentre spalancava gli occhi e si portava una mano al petto.
Si guardò intorno, spaesato, e trovò la luce accesa (accecante) sopra il letto – la testa di Alessandro la copriva per metà. «Ale...» mormorò, mettendosi a sedere. Batteva i denti e aveva i palmi sudati, ma Alessandro gli strinse lo stesso la mano nella propria, il sorriso dolce che aveva in volto celava apprensione. «Hai urlato» disse. «Stai bene?»
Riccardo si passò un palmo sulla fronte umida e fissò le loro mani unite, chiedendosi se Alessandro sentisse quanto gli tremasse il cuore. «Un incubo» sussurrò.
Il pollice di lui prese ad accarezzargli il dorso della mano e solo allora Riccardo si accorse del suo petto nudo, l'unico altro accessorio la collanina dorata che portava al collo. Tentò di guardarlo in viso, ma l'occhio gli cadeva sempre sul tatuaggio che aveva sul costato – e la sensazione di calore che provò nell'esofago lo fece rinsavire appena.
«Ne fai spesso?» chiese. Aveva lasciato il suo viso per scostargli un riccio dalla fronte e adesso la sua mano gli accarezzava con delicatezza la linea della mandibola, il collo pieno di brividi.
Annuì con fare mesto e disse: «Sempre, qualche tempo fa. Mi dissero che era il mio modo di buttare fuori le cose brutte».
«E poi?»
«E poi gli incubi hanno smesso» disse, abbassando gli occhi. Si vergognava a raccontare di quella parte della sua vita, perché mostrava quanto fosse debole e insicuro – mostrava quanto il posto in cui nascondeva tutto ciò che non gli piaceva di sé fosse fragile: la sua testa.
«Sai perché?» Alessandro era paziente, ma la sua curiosità traspariva dal tono di voce, dal modo in cui si sporgeva verso di lui per ascoltare meglio i suoi sussurri.
Riccardo scosse appena le spalle e un brivido gli colò giù dalla schiena umida. «È... è una lunga storia» non voleva sembrare scortese, ma non aveva nessuna voglia di parlare di quello adesso.
Alessandro non gli rispose: rimase immobile, le dita fossilizzate tra le sue, il bicipite teso, il ciondolo della collana fermo tra le clavicole; e poi gli si avvicinò e lo abbracciò – «Vieni qui» –, negli occhi il chiarore dell'impulso, della necessità. Riccardo sentì il freddo del metallo scottargli la pelle del petto e le spalle nude di Alessandro scontrarsi con le sue, mentre le mani gli accarezzavano il retro del collo.
Quando si staccarono, gli occhi di Alessandro sembravano quelli di un gatto affettuoso e Riccardo lasciò che lo spingesse di nuovo giù sul cuscino e che gli coprisse il petto con il lenzuolo. Stava per alzarsi in piedi quando aggrottò la fronte, restio a lasciar andare il contatto con Riccardo, che vide bene l'interrogativo sul suo viso – la battaglia interiore, l'indecisione. Alla fine, Alessandro sospirò, come fosse arrabbiato con se stesso, e disse: «Dormo qui, ti va?»
Riccardo annuì e si girò su un fianco, mentre Alessandro spegneva la luce e poi lo scavalcava per prendere il posto accanto a lui; si infilò sotto le coperte e si voltò a guardarlo, una mano a reggere il viso e l'altra aperta sul materasso, tra loro due.
Le dita di Riccardo strisciarono sul copriletto e si appoggiarono su quelle di Alessandro: aveva bisogno di sentirlo vicino – il più vicino possibile, perché anche se la paura aveva preso per un momento il sopravvento, la fame e il tormento interiore erano ancora lì, a scavargli il fegato come il gocciolio dell'acqua scava la roccia. «Grazie» sussurrò, così flebilmente che credeva di averlo solo pensato.
Alessandro non rispose subito e nel buio Riccardo si chiese se avesse gli occhi chiusi – in quella parte della casa la luna entrava più timidamente e distingueva solo i contorni degli oggetti, la loro sagoma. «Mi hai spaventato» disse dopo un po'. «Non ne abbiamo più parlato, ma quella sera al bar mi hai davvero spaventato».
Riccardo intrecciò le dita con le sue. «Era soltanto un attacco di panico...»
Un sospiro di Alessandro accompagnò il movimento brusco che Riccardo fece per avvicinarsi; poi disse: «Lo dici tu perché non hai visto la tua faccia. Tu non mi sentivi, Ricky...»
A Riccardo tremarono un po' le gambe al pensiero che Alessandro si fosse tanto preoccupato per lui – e si risentì appena quando si chiese se l'avesse abbracciato e tenuto stretto, quella notte, soltanto perché si sentiva in dovere di farlo e non perché lo volesse. Uno spillo di vergogna gli punse il cuore al pensiero di aver frainteso ogni cosa, di aver creduto che quello che provava – seppur confuso – fosse in un qualche modo ricambiato.
«Sono cose che capitano...» tentò di tagliare corto, il tono più duro di quanto volesse. «Ma grazie per esserti preso cura di me, anche se sono una scocciatura».
Alessandro scostò la mano per sollevarla sul suo viso, nell'oscurità, e seguì con i polpastrelli il suo profilo, la linea della mandibola, il collo scoperto – le palpebre di Riccardo tremolarono appena. «Credimi quando ti dico che non lo sei» sussurrò.
Lo spillo si fece meno appuntito e Riccardo, senza rispondere, si acciambellò accanto al suo petto, la testa premuta contro il costato. Il cuore di Alessandro, da lì, suonava come una tempesta – una tempesta in mare, quelle con cavalloni alti quanto montagne, quelle da cui è difficile che il marinaio ne esca vivo.
Riccardo si sentì circondare dal braccio di lui, un bacio morbido sulla testa, e il sussurro tiepido di Alessandro che diceva: «Ora dormi».

Ma Riccardo non dormì: tra le viscere gli strisciava il calore più intenso che avesse mai provato, una colata lavica di sentimenti inespressi e disordinati. E insieme a questo c'erano il bisogno di contatto e la sensazione opprimente che dopo quella sera lui e Alessandro non sarebbero più potuti tornare indietro.
Alessandro gli aveva visto il cuore, nudo nelle sue insicurezze più profonde, e Riccardo non si era sentito svestito: lo sguardo morbido di lui gli aveva fatto da coperta, l'aveva accarezzato con polpastrelli e palmi caldi – l'aveva fatto sentire protetto.
Si scostò il lenzuolo di dosso e scese dal letto, procedendo a tentoni verso il bagno. Si lavò il viso e si controllò allo specchio, sperando di vederci qualcuno che paresse più sicuro di quanto lui fosse; ma appariva spaventato, divorato dal tarlo della confusione e della consapevolezza, perché sapeva bene di non poter più mentire a se stesso – non a notte fonda, non con il cuore che nel petto batteva ora su una frequenza tutta nuova.
Quando tornò nella stanza, Alessandro si era spostato verso il centro del letto e gli dava le spalle, il lenzuolo gli lasciava scoperta tutta la schiena. Riccardo gli si stese accanto e gli circondò la vita con un braccio; stava per lasciargli un bacio leggero sulla scapola – perché voleva provare, sentire la sensazione della sua pelle contro le labbra –, quando Alessandro si lamentò appena, si mosse e si voltò verso di lui.
«Non riesci a dormire?» sussurrò. Aveva la voce di chi sta cercando di combattere il sonno, ma la gamba che cercò la sua sotto il lenzuolo fece capire a Riccardo che aveva tutta la sua attenzione.
Riccardo si sistemò meglio sul cuscino e poi scosse piano la testa. «No...»
Alessandro si stropicciò gli occhi e poi si sollevò su un gomito: in quel modo, un raggio flebile di luna illuminava di grigio il viso di Riccardo. «Pensi al sogno?»
«No...» ripeté. Gli sembrava che lui e Alessandro non fossero mai stati così vicini, ma forse era soltanto la notte a dargli quell'illusione, o il petto di lui che, incandescente, pareva muoversi a ritmo con il suo.
«Allora cos'è?»
La fiammella che ondeggiava in Riccardo si fece incendio mentre il desiderio intenso e deleterio si faceva strada in lui come il fiume straripato invade le cantine. Avvolse le spalle di Alessandro con un braccio e l'altra mano andò ad accarezzargli il collo, seguendo il battito sottile del suo cuore. Tirandolo più vicino, «Questo» sussurrò, un respiro fragile come un fiocco di neve caduto sul palmo, come lo sgretolarsi di una stella cadente vista dalla spiaggia. «Penso solo a questo»; e, accarezzandole con il pollice, gli baciò le labbra, così delicatamente da percepirne appena la pressione – il loro schiudersi sorpreso.
Quando riappoggiò la testa sul cuscino, Riccardo non respirava e aveva già sulla lingua una scusa per ciò che aveva fatto – una bugia che potesse salvare il salvabile; ma Alessandro gli chiuse la bocca con la sua in un bacio più insistente, e le parole andarono perse nel trambusto del suo cuore, del suono della pelle di Alessandro contro la sua, delle mani a stringergli i capelli.
Le dita di Riccardo contavano i nei sulla schiena di lui, il numero di brividi che facevano a gara sulla sua spina dorsale, quante volte respirasse dentro quel bacio folle, che sapeva di sospiri e di silenzio – di Alessandro.
«Ale...» lo chiamava ogni tanto, ma questo non rispondeva mai – lui non parlava, Alessandro – e fu un bene, perché Riccardo non aveva niente da dirgli – niente che non stesse già dicendo sulla sua bocca, che era calda e dolce come una pesca maturata al sole. La sua pelle sfrigolava là dove veniva sfiorata dall'altro, come braci gettate nell'acqua ghiacciata – e quando i suoi baci scesero dalla bocca al collo, il suo stomaco fece una piroetta e si prese gioco di lui ad un suo sospiro troppo forte. Alessandro sorrise contro la pelle, mordendo proprio dove questa era più sottile e sensibile.
«Ridi di me?» gli chiese Riccardo, che aveva l'affanno e le mani formicolanti di adrenalina e piacere – del calore di Alessandro. Gli sembrava che sfiorargli la schiena, il petto, i polsi fosse come toccargli il cuore.
«Sì» gli rispose, tirandogli leggermente i capelli per guardarlo alla fioca luce della luna; e sorridendo lo baciò di nuovo, avvolgendogli la lingua con la propria.
Fu quando Riccardo spinse le mani un po' troppo in basso, i polpastrelli infilati nell'elastico dei boxer di Alessandro, che questo si staccò, il fiato corto e gli occhi lucidi. «Dovremmo dormire» sospirò, chinandosi per baciare un'ultima volta la bocca umida di Riccardo, che, sorpreso, tentò di protestare: «Ma...»
«Riccardo...» lo ammonì, stendendosi a pancia in su, neanche più un centimetro di pelle in contatto con quella dell'altro, che rotolò su un fianco e si coprì il petto con il lenzuolo, il viso rivolto verso la luna. Si sentì guardare da Alessandro, ma non cadde nella sua trappola, ancora stordito da quello che era appena successo; e chiuse gli occhi, tentando di riordinare quel groviglio di emozioni e pensieri che gli affollava la testa – ma il rumore questa volta proveniva soltanto dal basso, ed era l'eco maligna della fiera che gli morsicava lo stomaco da mesi e che ululando diceva: sei fottuto, fottuto, fottuto.

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Capitolo di scuse per il dolore dei primi tre. Spero che vi piaccia! <3

Afrodite | Mahmood e BlancoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora