8.

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Io ti sbircio
come una scacchiera
di battaglia navale
non so ancora dove
mi affonderai.
Chandra Livia Candiani

Il cuore di Alessandro quella mattina batteva placido sotto l'orecchio di Riccardo, che gli lasciò un bacio sul costato e poi scalciò via il lenzuolo.
Si infilò nella doccia senza neanche guardarsi allo specchio, sicuro che la vista dei segni che aveva sul collo gli avrebbe reso le gambe molli. Si sciacquò il profumo di Alessandro via dal corpo con nostalgia e rivide dentro al getto tiepido le labbra di lui contro le sue, le braccia forti che lo stringevano come a volerlo tenere insieme, il senso di abbandono sul volto di Alessandro quando gli aveva chiesto di guardarlo.
Persino l'acqua scrosciante non riusciva a tenere a bada il ruggito del suo stomaco; lo scompiglio che stare avvinghiato ad Alessandro in quel modo aveva portato nel suo cuore era la sola cosa che gli sembrava reale, quando, il petto ancora umido, si affacciò sulla porta della stanza e lo vide girato su un fianco, il lenzuolo caduto morbido sul bacino, il braccio teso verso il suo corpo assente.
Decise di lasciarlo dormire, perché erano le sei del mattino e alle sei del mattino a parlare di cose importanti si rischia di rovinare tutto; perciò si diresse in cucina, recuperò il quaderno di Alessandro e ne strappò una pagina, premurandosi di non leggere niente di ciò che aveva scritto.
Buttò giù le cose che gli venivano in mente – parole morbide, sincere come la curva del fianco di Alessandro, il pollice affondato nella coscia, il gusto del piacere sulla lingua; e non si accorse della sveglia del vicino suonare né del ticchettio dell'orologio – solo dei passi scalzi di lui nel corridoio, che spuntò sulla porta della cucina stropicciandosi un occhio, addosso soltanto i boxer.
«Ciao» disse; era bello come un fiore e aveva gli occhi di chi non sa dove guardare.
Riccardo piegò il foglio e si alzò per mettere su il caffè, poi si voltò e gli fece segno di avvicinarsi. Alessandro lo accontentò, ma, per averlo vicino come voleva, Riccardo dovette tirarlo per una mano. «Dai, non fare così» mormorò.
Alessandro sospirò ed allungò il collo quando Riccardo ci posò le labbra, proprio sui punti in cui i denti la sera prima avevano stretto più forte. «Non sto facendo niente».
«Esatto» sorrise. «Sarebbe molto meglio se mi baciassi, no?» e si tirò indietro per guardarlo in viso, dentro quegli occhi persi e incerti.
Lui gli strinse un fianco e poi si sporse per sussurrare: «Io un bacio te lo do, però uno piccolo, perché non voglio che si bruci il caffè» e poi lo baciò davvero, pigramente, stringendogli la schiena con le braccia e lasciandolo fare quando Riccardo appoggiò i palmi sul bancone per mettercisi a sedere. Alessandro si infilò tra le sue gambe e prese ad accarezzargli le cosce – aveva le guance calde quando gli disse: «Ieri sera... era la prima volta, no?»
Riccardo annuì e l'incertezza gli invase i palmi delle mani. «Se ho sbagliato qualcosa...», ma Alessandro gli tappò la bocca con un bacio leggero: «No, no, sei stato perfetto».
Riccardo nascose il sollievo in una smorfia delle sue. «Perfetto, dici? Lo so che sono perfetto» e fece un po' lo scemo, mentre il caffè saliva e il sole delle sette inondava la stanza, dando alla risata sincera di Alessandro tutto un altro colore.
Mentre spegneva il fuoco, lui lo guardò come se avesse voluto dirgli qualcosa, ma poi si morse le labbra e tacque, porgendogli la tazzina. Riccardo soffiò sul caffè e mormorò: «Dimmi».
Alessandro si strinse nelle spalle. «Io...» si bloccò, appoggiato con il fianco al bancone; si guardò le mani per un attimo e poi risollevò gli occhi – erano i più disordinati che Riccardo avesse mai visto. «Niente» mormorò; e sorrise, la riluttanza malcelata da un sorriso d'imbarazzo. «Mi fa male il culo».
Riccardo scoppiò a ridere, perché Alessandro era davvero bello quella mattina e lui non poteva credere di averlo lì, ad un passo di distanza. Lo prese per un polso e lo tirò di nuovo tra le sue gambe, cercando di ignorare il fatto che sapesse che quello non era ciò che Alessandro avrebbe voluto dire davvero; e lui era imbronciato quando Riccardo lo baciò, ma mantenere il cipiglio fu difficile quando una mano di lui corse giù sul suo addome e si appoggiò sul tessuto sottile dei boxer – impossibile quando staccò le labbra dalle sue per sussurrare: «Adesso scendo da qui, mi prendi in braccio e mi porti in camera, intesi?»
Alessandro non si lamentò quando Riccardo gli morse il collo durante il tragitto, né lo fece quando gli tirò i capelli perché andasse più veloce; ma si vendicò quando lo adagiò sul letto disfatto, tra le lenzuola che avevano ancora il loro profumo – e si vendicò nel modo più dolce che potesse inventarsi: gli baciò le cosce e l'inguine finché Riccardo non lo supplicò di dargli un po' di piacere, le mani tremanti tenute ferme per i polsi da Alessandro, che invece di indirizzare le labbra alla sua intimità scese più giù, dove l'altro non era mai stato toccato.
Riccardo lo lasciò fare, la fronte corrugata e il cuore scalpitante per la sensazione nuova ed estranea, ma altrettanto piacevole – e quando Alessandro gli lasciò andare i polsi per poggiare le dita calde sulle cosce aperte, le mani di Riccardo corsero tra i suoi capelli e sulla bocca, per smorzare gli ansimi.
«Ale» sussurrò, la voce un flebile fiato di vento, già sfinito dal desiderio bruciante di averne di più. «Ale... vieni qui» lo supplicò, ma, proprio come lui aveva fatto la sera prima, Alessandro non lo ascoltò – si staccò per guardarlo con quei suoi occhi profondi e poi si leccò due dita.
Riccardo tremò di piacere fino all'ultima nocca e si morse le labbra tanto forte da farle sbiancare, mentre Alessandro gli baciava ogni neo sulla pancia e poi ogni neo sul costato, risalendo sul suo petto mentre laggiù aumentava la velocità e lo faceva impazzire.
Fu proprio mentre stava per raggiungere il culmine che Alessandro si fermò, lo guardò dall'alto con le labbra umide e gli occhi grandi e liquidi – e la schiena di Riccardo si riempì di brividi.
«Che fai?» si lamentò, più confuso che mai, mentre Alessandro si alzava e usciva dalla stanza. «Non puoi lasciarmi così».
Dopo un minuto buono, in cui Riccardo pensò di aver fatto qualcosa di sbagliato e di aver rovinato tutto, Alessandro ricomparve con un asciugamano: si stava tamponando il viso. Fece il giro del letto, si lasciò scivolare la biancheria lungo i fianchi e si sedette, proprio come la sera prima. Riccardo gli gattonò accanto e gli baciò il collo, mentre lui si metteva il preservativo.
Lo sentiva che quella mattina sarebbe stato diverso, che fare l'amore alla luce del sole era tutt'altra cosa – che guardarlo negli occhi mentre affondava in lui per Alessandro era difficile tanto quanto per Riccardo era non farlo.
Tentò di dire qualcosa, ma le parole gli si bloccarono tutte dentro al cuore quando Alessandro prese a muoversi, lento come lo sbocciare di una rosa e dolce come il gusto del suo dentifricio quando lo baciò.
«Non c'era bisogno che ti lavassi i denti» sospirò contro la sua guancia, le mani fra i capelli.
Alessandro incastrò il viso tra il suo collo e la spalla e incalzò il ritmo, baciandogli la pelle sottile della gola e sussurrando: «A molti non piace».
Il dolore che strinse il cuore di Riccardo sovrastò per un secondo il piacere e il fiato gli si seccò in gola quando ricordò che Alessandro aveva avuto tante altre persone, forse più di quante lui potesse immaginare – quando si accorse di quante cose di lui ancora non sapesse e di quanto volesse conoscerle tutte.
«Io sono Riccardo, però» disse, e forse anche con troppa rabbia, perché Alessandro sollevò la testa e lo guardò con occhi confusi – occhi confusi che si fecero dolci appena vide i suoi lineamenti feriti.
«Lo so» disse, toccandogli una guancia con due dita. «Tu sei Riccardo» e non cercò neanche di celare il brivido che gli scosse la schiena, mentre l'altro stringeva le gambe attorno a lui e si protendeva per ricevere un bacio, in cui tutti e due ansimarono, mentre i movimenti di Alessandro divenivano più sconclusionati e il piacere troppo pungente perché potesse essere ammutolito.
Alessandro lo guardò mordendosi le labbra mentre Riccardo veniva, in balia dell'ondata di benessere come il galleggiante nell'alta marea; e Riccardo vide il piacere corrugare la fronte di Alessandro e gli si strinse addosso, sperando che quel momento non terminasse mai, certo che la malinconia in quegli occhi scuri sarebbe tornata più profonda di prima, dopo la ritirata momentanea – non lasciarmi così.
Sentì il rumore del lattice e poi Alessandro recuperò l'asciugamano che si era portato dal bagno. «Guarda che disastro» rise, mentre glielo passava sull'addome.
Riccardo, assonnato, si portò un braccio dietro la testa e lasciò che lo coprisse con il lenzuolo e poi che si sdraiasse accanto a lui, la testa appoggiata sul petto.
Sonnecchiarono fino all'ora di pranzo, nudi e abbracciati dentro quel letto bianco, che sapeva di amore non detto e di tapparelle abbassate – e degli occhi socchiusi di Alessandro, del morso che aveva sul labbro inferiore, della sagoma della sua spalla in controluce.

Quando si svegliò, Alessandro non era accanto a lui. Lo sentiva parlare in salotto, con la radio accesa su una qualche stazione priva di buon gusto e con lo sfrigolio di qualcosa in una padella. Si alzò e si sporse oltre la porta del corridoio con solo la testa, cercando di capire se ci fosse un'altra persona nella stanza – ma stava solo parlando al telefono.
Quando lo vide, Alessandro gli indicò con una mano la cucina e mimò con le labbra: «I fornelli»; poi riprese a parlare – «Sì, non vedo l'ora di vederti. Mi sei mancato» –, voltandogli le spalle e mostrandogli la schiena nuda, quella su cui poche ore prima Riccardo aveva affondato i polpastrelli. La morsa di gelosia al cuore – che l'aveva avvolto già prima e che non si era allentata di un solo millimetro – diede un ulteriore giro di vite, fino a lasciarlo con un solo filo di fiato, che non gli bastò neanche per dire «Ciao».
Passò quella che gli parve una mezza eternità ad assicurarsi che nulla bruciasse, ancora un po' addormentato e soprattutto indolenzito dall'attività fisica; poi Alessandro lasciò cadere il cellulare sul tavolo con un sospiro e comparve alle sue spalle. «Fa' fare a me» e lo scansò dolcemente, spingendolo per un fianco.
Riccardo non rispose, perso nelle volute di fumo che si disperdevano nell'aria: avrebbe tanto voluto che i suoi pensieri fossero così, effimeri. E invece si ritrovava a rimangiarsi la voglia amara (amarissima) di chiedergli con chi stesse parlando al telefono, perché lui non aveva alcun diritto di saperlo.
«Stai bene?» gli chiese Alessandro.
Riccardo annuì e lo guardò negli occhi, che erano genuinamente preoccupati e questo gli faceva ancora più male. «Sono solo stanco».
Alessandro rimase in silenzio per un po' e Riccardo lo sentì il suo sguardo addosso – dentro – che gli sviscerava l'anima, poi sussurrò: «Senti, se ti sei pen–».
«Non mi sono pentito, Ale» sbroccò, perché lui proprio non voleva capirlo – che Riccardo lo voleva con ogni pezzo di sé, che se adesso era così era soltanto perché non si era pentito proprio di nulla (che forse se si fosse pentito sarebbe stato meglio) e che la sua unica preoccupazione era quella che Alessandro si tirasse indietro, perché sapeva com'era fatta la sua paura – l'aveva letta dentro i suoi occhi. «Guardami» e si indicò. «Ti sembro uno che si è pentito?»
«Mi sembri uno che pensa troppo per essersi appena fatto una scopata».
Riccardo fece un passo indietro – avrebbe preferito uno schiaffo in pieno viso. «Una scopata?» cercò di darsi un tono leggero, ma la voce gli uscì grave come ad un funerale – era l'omelia per il suo cuore scricchiolante.
«Sai cosa intendo» Alessandro cercò di aggiustare il tiro, ma Riccardo proprio non sapeva cosa intendeva.
«Io...» e si pizzicò l'interno del gomito, nel tentativo di tenere indietro le lacrime. «Credo sia meglio se me ne vado».
Si diresse verso la camera di Alessandro, dove recuperò i suoi vestiti, lo zaino ed un bel po' di rancore, che stava incollato alle pareti di quella stanza come una seconda carta da parati, insieme al gusto della loro scopata e della bile amara che Riccardo sentiva in gola.
Alessandro era davanti alla porta della cucina quando tornò, aveva le braccia incrociate e gli andò incontro mentre lui puntava al corridoio, dove aveva lasciato le scarpe.
«Ricky, per favore» e lo fermò per un braccio. Aveva sul viso l'espressione più caotica che avesse mai visto e anche Riccardo ci si smarrì dentro – persino adesso che stava per andarsene, Alessandro non sapeva cosa fare?
«No, va bene» disse, scuotendosi via di dosso la sua mano, il cui tocco gli faceva provare cose che ora non voleva provare, che avrebbe solo voluto seppellire in fondo al mare di dolore che gli inondava lo stomaco. «Ho sbagliato io a... a credere che–». Sentì il sentimento mostruoso che l'aveva sempre spaventato sbracciare nell'acqua alta – la tua paura cos'è?
«Non era quello che intendevo...» lo incalzò Alessandro, ma era incerto, inciampava sulle lettere come se ognuna fosse un ostacolo insormontabile.
Gli occhi di Riccardo si riempirono di lacrime, aspre come il vino che avevano bevuto la sera prima, ma non le lasciò cadere mentre lo guardava in faccia e diceva: «Era proprio quello che intendevi. Ora posso andare?»
Quando era già sulla porta, Alessandro la bloccò con un piede. «Venerdì parto per la Sardegna, non voglio che ci lasciamo così».
Riccardo sbatté le palpebre e due lacrime rotolarono giù sulle sue guance come pioggia sui finestrini nelle giornate d'autunno; si asciugò il viso con il dorso della mano e aprì la porta. «Buon viaggio, allora».

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Eh sì, è finita la pacchia, adesso ritorna un po' di angst, che tanto non fa mai male, no?

Fatemi sapere che ne pensate!

Afrodite | Mahmood e BlancoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora