Nel mio cuor dubitoso
Sento bene una voce che mi dice:
"Veramente potresti essere felice"
Lo potrei, ma non oso.
Umberto Saba«Lo sai che ti ho sentito, sì?» sua madre gli aveva strappato una cuffietta dall'orecchio e adesso lo guardava attraverso il riflesso nell'oblò, così seria da fargli vibrare i palmi già pieni d'angoscia.
«Ma'...» borbottò, puntando lo sguardo verso il ciuffo di capelli biondi che spuntava dal sedile davanti al suo. Non aveva voglia di parlare di Riccardo, né ora né mai, perché era appena riuscito a ricomporsi e sentiva che ci avrebbe messo un'altra eternità, a rifarlo di nuovo – ad asciugarsi gli occhi con la carta igienica alle tre del mattino a causa di un ragazzino imbecille.
«Non me ne hai parlato, questa volta. Sei finalmente diventato un adulto, per caso?»
Alessandro scoppiò a ridere e si voltò per farle una linguaccia. «Certo che sei stronza» disse. «È perché mentre piangevo ho disturbato il tuo sonno?»
Sua madre alzò gli occhi al cielo con fare scherzoso, poi gli posò una mano sul braccio. «Di solito non piangi mai...»
Lui annuì e tornò a guardare fuori dall'oblò, stringendosi nelle spalle. «Pensavo di aver le cose sotto controllo, no? Invece è tutto un casino... lui...».
«È il ragazzo con cui stai scrivendo quella canzone bellissima di cui mi hai mandato le bozze?»
Ad Alessandro si strinse il cuore e gli tornarono in mente le parole di Riccardo, quelle che gli aveva sussurrato nella cornetta la sera prima, quelle che gli avevano rimescolato nel corpo tutte le convinzioni – devi saperlo che la scrivo per te.
«Non è bellissima, è letteralmente un insieme di cose che ci sono successe» sputò, nervoso, arrabbiato, perché Riccardo era caos e distruzione e lui ci era caduto dentro di proposito – ci si era buttato, nel caos di Riccardo, e ora non trovava più l'estremità del filo aggrovigliato che erano le sue emozioni.
«E queste cose che vi sono successe non sono belle?» sua madre era dolce, anche se lui non se lo meritava.
«No, non lo sono» e incrociò le braccia al petto, mentre si rimetteva la cuffietta e cercava di scacciare via dalla testa quel ronzio fastidioso che diceva: lo sono fin troppo, fin troppo.La Sardegna era la sua casa, il sorso d'acqua fresca dopo una camminata sotto il sole, e lo accolse con la veranda dalle sedie di plastica, con i lettini sbiaditi sul terrazzo e con il sorriso dolce di sua zia, che lo abbracciò e gli versò il caffè ancora prima che si sedesse.
Quel posto faceva parte di un mondo che non comprendeva Riccardo né i ricordi che aveva di lui: lì, Alessandro poteva guardare ogni angolo senza trasalire, senza dover scacciare dalla mente i pensieri intrusi che urlavano: qui ti ha parlato di lui, qua vi siete baciati, lì avete fatto l'amore.
Aveva passato notti brutte, la settimana prima, dentro quella casa vuota che sapeva ancora di Riccardo e di tutte le belle sensazioni che si era portato con sé – notti brutte in cui si era costretto a farsi sanguinare le labbra pur di non sollevare la cornetta e chiamarlo per dirgli che sì, era un coglione, che era il contrario di un angelo, che...
«Quindi, Ale, raccontami un po'» gli disse sua zia, dietro la tazzina ormai vuota del caffè. «Hai nuova musica da farmi sentire?»
Sua madre lo guardò con fare enigmatico, mentre lui scuoteva la testa e si stringeva nelle spalle. «No, ho la penna un po' secca, ultimamente».
Mentre si alzava per poggiare la tazzina nel lavello, vide chiaramente la preoccupazione disegnata nelle sopracciglia corrucciate di sua madre, che non disse niente, perché sapeva che Alessandro non parlava mai – e che quando lo faceva non era mai di sua spontanea volontà.
«Vado a sistemarmi un po', d'accordo? Non ho dormito un granché, stanotte, magari faccio un pisolino mentre aspettiamo gli altri».
Sua zia gli sorrise e accavallò le gambe mentre si girava verso Anna, e le loro voci sfumarono nel riecheggio dei suoi passi pensanti lungo le scale familiari, che odoravano di cera per parquet e di tutti i pomeriggi passati a rincorrersi a piedi nudi, da bambini.
Raggiunse la stanza di suo cugino e si arrampicò sul letto a castello, stanco e triste come non lo era da tanto tempo. Con l'avambraccio poggiato sugli occhi, tentò di riposare, di spegnere quella sensazione di corrosione che provava nel petto, ma il buio gli ricordava le sere che aveva passato con Riccardo – quelle sere in cui per vederlo non gli era servita la luce, perché Riccardo la luce ce l'aveva sempre avuta dentro e i suoi occhi nell'oscurità erano come fuochi fatui.
Si rigirò senza pace dentro quel letto da cui gli sporgevano i piedi e pensò al modo in cui Riccardo si era pulito la bocca dal lucidalabbra di quella ragazza, a come gli era andato dietro perché l'aveva capito di aver fatto una cazzata – o forse perché l'aveva visto, quello che aveva provato a sorprenderlo contro a quel muro, in quel millisecondo in cui il dolore gli era fuoriuscito da ogni parte, denso come melma attaccata alle ossa.
E poi Riccardo gli aveva detto quello che provava, nei silenzi di quella chiamata disperata – e Alessandro quei silenzi li aveva ascoltati tutti, gli si erano infiltrati tra le costole e adesso gli avvolgevano quel suo cuore freddo di un tepore che gli stava scomodo.
Non voleva, Alessandro, sentirsi in quel modo; non per Riccardo, che era la cosa più bella che gli fosse mai capitata e come tutte le cose belle gli faceva male – un male cane dentro al petto e nelle ginocchia e sui palmi delle mani, così forte che a volte doveva permettersi di chiudere gli occhi e respirare, perché sapeva che le cose belle prima o poi sfiorivano e che di piangere ancora nel bagno di sua madre non aveva affatto voglia.
Sapeva bene che quel continuo rimuginare avrebbe solo peggiorato la situazione, ma in lui Riccardo era vivo e resistente come l'erbaccia che cresce tra le fughe del marciapiede: era riuscito a mettere radici nell'ambiente più ostile che potesse esistere (il suo cuore tutto un ghiaccio) e ora lo guardava da laggiù con quella faccia tosta e la sua eco diceva fallo, dai, strappami, strappati.
Passò il pomeriggio in dormiveglia, mescolando sogni e pensieri – che tanto sognava e pensava soltanto ad una cosa; e si destò quando una voce lo chiamò da sotto il letto.
Era suo cugino Francesco, che lo guardava attraverso le sbarre con le mani sui fianchi. «Che entusiasmo, cavolo!» scherzò, quando Alessandro si coprì la faccia con le mani, sprofondando la testa nel cuscino.
«Lasciami dormire un altro po'» borbottò.
«Be', sono arrivati gli altri e mamma sta già impazzendo dietro a quelle polpette maledette. Se non vuoi che qualcuno venga a tirarti giù dal letto a forza...»
Alessandro fece una smorfia contro i palmi e poi si trascinò giù dalla scaletta con poco slancio. «Ditele che non c'è bisogno che le faccia ogni volta che arrivo».
«Ormai è di tradizione, lo sai. E poi direi che ti servono, guarda che faccia che c'hai!»
Alessandro si stampò un sorriso maldestro in viso e lo abbracciò, borbottando: «Mi sei mancato, idiota».
Francesco gli picchiò sulla spalla un paio di volte e, ridendo, lo spinse fuori dalla stanza. «Allora...» e lo guardò di sottecchi, mentre gli faceva cenno di scendere per primo le scale. «Che mi racconti? Hai delle novità?»
«Tipo?»
«Tipo... la persona per cui sbatteresti brutalmente il telefono in faccia al tuo cugino preferito, come hai fatto l'altra mattina?»
Alessandro si strinse nelle spalle e non lo guardò, quando questo lo affiancò nel corridoio che portava alla cucina, da cui provenivano le voci di sua cugina e di sua madre. Francesco era stato per molto tempo il suo confidente numero uno e sapeva leggerlo meglio di quanto a volte facesse lui stesso. «Non ti ho sbattuto il telefono in faccia, e poi, be'...»
Francesco gli lanciò una breve occhiata e poi spalancò la bocca. «Oh...» mormorò, con il tono di chi ha capito una verità importante. «Se hai bisogno, lo sai...»
Alessandro gli rivolse un sorriso d'assenso e si infilò nella porta della cucina per primo. «Lo so, ma non è niente di importante, non ti preoccupare».
Non sentiva di avere le energie sufficienti per affrontare un pranzo con tutta quanta la famiglia, non con il rimbombo della telefonata di quella notte che ancora gli rimbalzava in testa – non quando aveva cucite dietro alle palpebre le immagini degli occhi sciolti di Riccardo dentro a quel prato verde, e la sensazione delle sue braccia aggrappate alla schiena.
Francesco sospirò con fare teatrale e incrociò le braccia al petto, mentre Alessandro si buttava tra i suoi cugini e abbracciava e baciava tutti, sbilanciato in avanti dal peso di quel suo cuore sfiorito.Riccardo lo chiamò qualche sera dopo, quando Alessandro stava stracciando a briscola tutti quanti e sorseggiava vino dentro ad un bicchiere di plastica. Una carta gli scivolò di mano, mentre il cellulare prendeva a vibrare accanto a lui, lo schermo che mostrava la fotografia che Riccardo aveva caricato mesi prima, insieme alle emoticon di una bicicletta e di un diamante. Era una fotografia brutta – Riccardo strizzava un occhio, metà della fronte fuori dall'inquadratura, e guardava la fotocamera dall'alto verso il basso, intento a mandare un bacio –, ma Alessandro non aveva mai avuto il coraggio di cambiarla, perché sapeva essere l'unico a vederla comparire sullo schermo quando Riccardo lo chiamava – l'aveva scattata per lui.
«Rispondi?» lo incalzò sua cugina, che aspettava (senza riuscire a nasconderlo) di giocare l'asso di briscola che aveva pescato da almeno quattro turni.
Alessandro scosse la testa e girò il telefono a faccia in giù, lasciandolo squillare. «Può aspettare» disse, e si nascose per il resto della serata dietro alle carte e al bicchiere di plastica, mordicchiandone il bordo con fare inquieto.
Più tardi, quando tutti erano andati a dormire e sotto alla veranda erano rimasti soltanto Alessandro, Francesco e sua sorella, che sonnecchiava sul dondolo, le caviglie incrociate e un polso che sporgeva dalla spugna a righe bianche e verdi – più tardi, quando il telefono di Alessandro era ancora nella stessa posizione e lo fissava da laggiù, Francesco gli si sedette accanto e lo guardò di sottecchi.
«Quindi...» borbottò, sfilandosi di tasca un grinder. «Smezziamo?»
Alessandro annuì e appoggiò le gambe sul tavolo, guardando una falena volare in cerchio attorno alla lampadina che, tenue, illuminava la veranda. «Non dico mai di no, lo sai».
Francesco, il filtro appoggiato tra le labbra, gli lanciò un'occhiata di sbieco e poi guardò verso il basso, mentre si rigirava la cartina tra le mani. «Hai voglia di parlare di quella cosa? Ieri pensavo ti saresti lanciato dalla scogliera».
Alessandro si strinse nelle spalle: suo cugino, come sempre, stava esagerando. Tutti si erano accorti che fosse giù di morale, ma non era niente che si risolvesse con un bel «soffro d'insonnia»; ma Francesco... a lui non sfuggiva niente. «Sai come sono fatto. Ci devo sbattere la testa prima di accorgermi che è un muro».
Francesco fece un tiro e poi allungò la mano verso di lui, dicendo: «Ed era davvero un muro? O te la sei fasciata prima ancora di andarci a sbattere?»
Sbuffò, così forte che sua cugina, ancora stesa sul dondolo, arricciò le dita della mano, e si appoggiò meglio allo schienale della sedia di plastica, lasciando cadere la cenere nel bicchiere ormai vuoto del vino. Riccardo non era stato un muro, di quello era certo; Riccardo l'aveva guardato e con quegli occhi accoglienti gli aveva rimestato tutti gli organi e le viscere – Riccardo, più che muro, era stato il terremoto che aveva fatto crollare la mensola su cui Alessandro aveva ben disposto i suoi sentimenti, etichettati uno ad uno (e un po' impolverati).
«L'ho beccato mentre baciava una tipa conosciuta da due minuti, e va bene che avevo fatto una cazzata, ma...»
«Una cazzata grave?»
«Sì, sì, e non fare quella faccia, stronzo» e ridacchiò, perché l'espressione da so-tutto-io di Francesco era esilarante. «Ma non importa, perché... perché...»
«Perché?»
Sentì gli occhi pizzicare di lacrime, calde come il fumo che saliva in volute e raggiungeva la falena, che continuava a volare e a sbattere contro la lampadina. Alessandro lasciò cadere la testa all'indietro, all'improvviso sopraffatto da ogni cosa, e desiderò di non aver fumato e di non aver bevuto, perché nella sua testa affollata e confusa si fece spazio l'eco maledetta di Riccardo, quella che non l'abbandonava mai, che era sempre dietro l'angolo a ricordargli che le cose che hai radicate nel cuore a strapparle via bisogna fare un macello di lacrime e sangue – e che poi si rimane col petto vuoto.
«Io non lo voglio, cazzo. Ma come mi è venuto in mente, di innamorarmi di lui?»
Francesco rimase in silenzio, ma gli occhi li spalancò lo stesso, e nell'aria aleggiò il suono di quella parola terrificante, insieme al ronzio delicato della falena e alla sensazione, sempre più vera, di non aver nemmeno cercato, Alessandro, di afferrare i contenitori delle sue emozioni in rovina, mentre la mensola e tutto il suo mondo crollavano – l'unico barattolo rimasto intatto quello con l'etichetta che diceva «amore».---
Lo so, sono in ritardo pazzesco. Purtroppo ho un esame la prossima settimana e non ho un attimo libero. Spero che il capitolo su Alessandro vi piaccia!

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Afrodite | Mahmood e Blanco
FanfictionAlessandro è contraddizione, reticenza, silenzio. Riccardo prende sempre l'iniziativa e ha un mostro impazzito nello stomaco - dicono che sia amore. --- Abbracciami, desiderava dirgli. «Abbracciami». Aveva sempre avuto questo problema, non riusciva...