7.

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Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
   sei la mia carne che brucia
   come la nuda carne delle notti d'estate.
Nâzim Hikmet

Alessandro aveva la bocca umida e le spalle tese mentre i suoi baci scendevano giù sul collo di Riccardo, verso il bordo della maglietta che indossava. «Più vicino» sussurrò, piantando le dita sulle sue scapole per farlo abbassare. Aveva caldo e sentiva ogni parte di sé a contatto con la pelle di Alessandro bruciare, ma lo voleva più vicino – così vicino da dimenticarsi chi fosse chi.
La mano che Alessandro aveva libera vagava sotto la t-shirt di Riccardo e gli sfiorava il tatuaggio sullo stomaco, mentre con la lingua ridisegnava il profilo della clavicola.
Riccardo percepiva soltanto i loro corpi aggrovigliati, tutto quello che iniziava sotto, sopra e attorno non esisteva: c'era solo Alessandro, che gli chiese un altro bacio e un altro bacio ottenne – di quelli umidi e passionali, che lasciano con i capelli spettinati e la bocca rossa.
«Cazzo, Ricky» sussurrò, quando questo gli strinse le gambe attorno ai fianchi e gli fece perdere l'equilibrio. «Se fai così, però...»
Erano appiccicati, Alessandro si reggeva sui gomiti e tentava di allontanarsi un po', ma Riccardo lo ingabbiò anche con le braccia. «Io lo voglio» soffiò sulle sue labbra, perché la sentiva l'indecisione di Alessandro e gli faceva male fingere di riuscire ancora a sopportarlo – il pensiero che Alessandro non lo volesse tanto quanto lo voleva lui.
Alessandro era lì, bello come tutte le cose più belle, e lo guardava con occhi d'incertezza, e non conoscerne il motivo lo mandava fuori di testa – perché mi guardi così?
Gli spinse la testa verso la propria e lo baciò ancora, perché era l'unica cosa che Alessandro gli concedeva di fare, in quell'aggroviglio di ossa, cuori, pelle. Sperò di fargli capire quanto fosse disperato, di dirgli che gli era mancato, che non era il battito del suo cuore il problema ma il motivo per il quale batteva così forte. E ripensò a sua madre – il mio bambino è innamorato –; lei aveva ragione? Di solito le madri sono sempre le prime a capire le cose, ma parlare d'amore è come parlare di politica e di guerra: tutti dicono la loro ma nessuno sa veramente cosa sta dicendo. Riccardo non sapeva, non sapeva niente – solo che Alessandro lo guardava con quegli occhi malinconici e cupi e non parlava – lui non parlava mai.
Non parlava, ma smise di lottare contro le pressioni di Riccardo e si abbandonò su di lui, il mento appoggiato sul petto. Riccardo lo guardò e lo vide che voleva dirgli qualcosa, ma Alessandro mandò giù qualsiasi cosa fosse e socchiuse le palpebre quando Riccardo prese ad accarezzargli i capelli.
«Avrei dovuto lavorare, questa sera» e sospirò, riaprendo gli occhi. «Perché sei qui?»
Passò qualche secondo, prima che Riccardo trovasse il coraggio di aprire bocca: cos'avrebbe dovuto dirgli? Forse un po' sono innamorato di te?
«Non so...» disse. «Volevo essere qui... essere qui con te».
Alessandro sospirò ancora e poi piegò la testa, appoggiando la guancia sul suo petto. Riccardo sentiva che era infelice – tormentato –, ma non sapeva cosa l'altro volesse sentirsi dire; e non riuscì a mascherare il tremore delle sue mani tra i capelli di lui, quando ripresero ad accarezzarli – non lo senti cosa provo per te? non lo senti che mi scoppia il cuore?
«Metto qualcosa?» chiese dopo un po', perché in quel silenzio il rumore che aveva dentro sembrava rimbalzare su tutte le pareti.
Alessandro mosse appena il viso, annuendo.
«Poi lo usiamo come sottofondo?» scherzò, rubando una risata all'altro, che gli diede un morso da sopra la maglietta e mormorò: «Sei proprio incredibile».

Alessandro lo portò fuori a cena – un posto con i tavoli tondi ed il privé, con i camerieri che andavano in giro con il tovagliolo sull'avambraccio e non cercavano mai il contatto visivo con i clienti.
Riccardo indossava una camicia che gli aveva prestato Alessandro e rideva da un quarto d'ora per una cosa che neanche ricordava, il bicchiere di vino appoggiato alle labbra e il piede sotto il tavolo che cercava quello dell'altro.
«Mamma mia» ripeteva Alessandro, toccandosi il collo accaldato. «Io lo so che adesso ci cacciano» e rideva anche lui, perché Riccardo non la smetteva e la sua risata era contagiosa.
«Scusami, adesso torno serio» si asciugò gli angoli degli occhi e guardò il suo piatto, cercando di trattenersi. «Però io ho fame...»
Alessandro si sporse sul tavolo per sussurrare: «Dopo andiamo dal kebabbaro» e scoppiarono di nuovo a ridere.
Ed effettivamente dal kebabbaro ci andarono: seduti ad un tavolo in disparte si dividevano una Coca Cola e cercavano di non dare troppo nell'occhio.
«I ristoranti pettinati non fanno per me» mormorò Riccardo, stendendo le gambe tra quelle di Alessandro. «Ma forse l'avrai notato...» e gli fece un sorriso, perché le guance di Alessandro, arrossate dal vino, gli davano un'aria adorabile.
«Il cameriere ci ha guardato malissimo quando ha portato il conto» sogghignò Alessandro, ciondolando la testa di lato e gettando un'occhiata alla carta vuota del panino di Riccardo, abbandonata sul tavolo.
«A proposito...» gli rispose questo, sbilanciandosi sulla sedia per sfilarsi il portafogli dalla tasca; Alessandro lo fulminò con lo sguardo e gli afferrò un polso per bloccarlo. «Non pensarci neanche» lo ammonì.
Un brivido lo invase al pensiero che quello che doveva essere un ripiego per la cena assomigliasse sempre di più ad un appuntamento e ridacchiò, mettendo via il portafogli. «Vuol dire che ti pagherò in un altro modo» e fece un occhiolino.
Alessandro gli lasciò un buffetto leggero sul braccio prima di ritirare la mano, che era calda e accogliente come le stelle quella notte, annebbiate dalle luci della città.
«Ale» disse Riccardo dopo un po', perché il cielo era pesante durante le estati milanesi e sentiva il cuore ingrossato d'umidità. «Dimmi qualcosa che non so».
Alessandro lo stava guardando e aveva le labbra socchiuse di sorpresa, le pupille dilatate dal buio e dal colletto stretto della camicia; deglutì lentamente e poi disse: «Le cose importanti le conosci tutte».
Riccardo lasciò andare le stelle e puntò gli occhi nei suoi, che erano spaventati e persino la notte non riusciva a nasconderlo – la tua paura cos'è?
«Non mi interessa delle cose importanti» brontolò. «Voglio i dettagli, le cose che gli altri non sanno. Dimmi, non lo so...» e voleva allungare una mano e stringere la sua, per dirgli che andava bene avere paura, che il mondo è un posto che terrorizza e che i peggiori mostri sono le persone – che anche lui aveva paura, una paura fottuta. «Dimmi della Sardegna, o dell'Egitto... anzi, dimmi di che colore fai l'albero di Natale, ti piace la cannella?»
Alessandro rise e scosse la testa, forse per nascondere gli occhi che gli si erano fatti enormi – e a Riccardo parve di scorgere dietro le ciglia lunghe una finestra spalancata, affacciata dritta sul cuore di lui. «Andiamo, d'accordo?» e si alzò, bevve un ultimo sorso di Coca Cola e la abbandonò sul tavolo, mezza piena.

Afrodite | Mahmood e BlancoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora