2.

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Ma che cos'è
dimmelo tu
cos'è che devo fare
per non doverti più sognare
per non pensarti più
Andrew Faber

Non era semplice vivere costantemente affamato, con lo stomaco attanagliato da un vortice che girava e girava e girava e si portava via tutto quello che non fosse il centro della sua fame, il nocciolo di tutta la questione; che per Riccardo era Alessandro – ormai l'aveva accettato e compreso, anche se non capiva quale risvolto pratico potesse avere, essere cosciente del destinatario del suo sfrenato desiderio. La domanda necessaria era: desiderio di che cosa? Riccardo non sapeva rispondersi, perché la voglia che aveva di infilarsi sotto la pelle di Alessandro, di stargli così vicino da non riuscire più a capire chi fosse chi, era qualcosa che non aveva mai provato.
Aveva creduto di essersi affezionato a molte persone, in passato, ma adesso che si guardava allo specchio – e non si riconosceva –, pensava di non aver mai provato un sentimento autentico in vita sua; e si sentiva un impostore nel corpo di un santo, un bugiardo patologico che si accorge di aver detto per la prima volta la verità, e gli piace. Perché, in fondo, quella sensazione di panico che provava nelle viscere ogni volta che Alessandro gli era vicino gli piaceva, lo emozionava – e si chiedeva se anche ad Alessandro piacesse averlo nei dintorni, posare gli occhi su di lui quando nessuno poteva farlo, dormirgli accanto dopo un bacio sfiorato sulla fronte.
E se lo chiese per ore intere, mentre osservava Alessandro cucinare il pranzo, in silenzio, la mandibola contratta da un sentimento che Riccardo non era in grado di leggere.
Chiacchierarono di nulla, seduti attorno al tavolo, perché Alessandro, come gli occhi, aveva la bocca vuota. Ed era vero che non parlava mai, che Riccardo aveva imparato a non stupirsi di fronte ai suoi interminabili silenzi, ma questo era diverso – sapeva di diverso. Non c'era traccia di tenerezza nel modo in cui lo guardava, eppure Alessandro aveva sempre avuto da parte uno sguardo dolce per lui. Un freddo prepotente si impossessò delle sue spalle e la stanza precipitò nel caos, perché sapeva che quell'umore nero era dovuto al suo comportamento.
«Mi dispiace, Ale...» buttò lì, tra un maccherone e l'altro.
Alessandro alzò gli occhi su di lui e glieli puntò nell'anima, diretti e pungenti come i raggi del sole. «Continui a scusarti con me, ma non capisci neanche perché lo fai».
Riccardo sospirò e posò la forchetta nel piatto. «Sì che lo capisco, è solo che è diff–».
«Non hai idea di che cosa sia difficile, Riccardo...» e si sfregò gli occhi con un palmo, spingendo il piatto lontano da sé.
Questa era la prima volta da quando si conoscevano che Alessandro si sporgeva un po' oltre il suo baricentro, ma Riccardo non ne era felice: aveva sempre cercato di muoverlo dalla sua area di conforto, di farlo uscire dal guscio rigido di cui si mostrava armato, ma non era mai stata sua intenzione spegnere la luce che aveva negli occhi – che quel giorno erano bui come il cielo notturno e inquinato di Milano.
Le parole gli si persero sulle labbra, perché sapeva che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata sbagliata; ma Alessandro lo levò dall'impiccio, perché, alzandosi bruscamente, disse: «Lascia stare» e uscì dalla stanza.
Riccardo lo seguì, mentre si infilava le scarpe e afferrava le chiavi dal mobile dell'ingresso. «Ale...» tentò, ma Alessandro aveva il volto fatto di nuvole cariche di pioggia, la voce un fulmine mortale, quando, senza voltarsi, disse: «Sentiti libero di andartene»; e si chiuse la porta alle spalle.

Il pomeriggio passò lento, su quel divano, così lento che parve un giorno intero, un mese, un'eternità – occupata a tendere l'orecchio ad ogni minimo rumore, nella speranza che Alessandro rientrasse. Ma non lo fece, almeno finché Riccardo non si trascinò nel suo letto, gli occhi gonfi di rabbia e rimorso, e si addormentò, con la testa piena delle sue parole, quelle più dure che gli avesse mai rivolto.
Si svegliò quando sentì il materasso cedere sotto il peso di Alessandro e un suo braccio circondargli la vita. «Sei qui» gli sussurrò sul collo, poggiandoci le labbra calde.
Riccardo si sentì avvampare ed uno strano calore risalirgli dallo stomaco, dove la mano di Alessandro seguiva le sue emozioni – che erano un caos totale e non ci si capiva niente.
«Ale...» fu l'unica parola tremante che riuscì a pronunciare, e venne fuori come una preghiera, una richiesta. Temeva che il cuore gli bucasse il petto e Alessandro lo percepì, il suo scalpitare asimmetrico, la sua corsa impazzita e senza speranza.
«Farti trovare nel mio letto non ti farà perdonare». Aveva le pupille dilatate e il suo respiro sapeva di cuba libre, ma non era ubriaco – solo appena più sciolto.
Riccardo si sentì il viso andare in fiamme e le mani pizzicare dal desiderio di toccarlo, perciò si girò e piantò gli occhi in quelli di Alessandro; non erano mai stati più vicini. Sollevò una mano e gli accarezzò con i polpastrelli la linea della carotide, fino alla spalla nuda. «Ale... io–».
«Non dire che ti dispiace» lo interruppe. Aveva gli occhi grandi come due lune e la vibrazione delle sue corde vocali rimbombò per tutta la stanza. Nello stomaco di Riccardo regnava il caos, ma la sua testa era silenziosa – sentiva solo il respiro di lui, la pelle morbida sotto le dita, lo sbattere languido delle ciglia. Era una scena da film, quella della mano di Alessandro che gli si appoggiava su un fianco e lo tirava più vicino – era la scena più bella di tutto il film.
«Non mi dispiace per niente, lo sai. È che sono solo un codardo» sussurrò. Sentiva quel lamento nello stomaco da tanto tempo ormai, ma tutte le volte gli era mancato il coraggio di guardarsi dentro per capire da dove provenisse; e si sentì di nuovo un impostore – lui che faceva del coraggio la sua unica qualità.
«Di cos'hai paura?» e gli appoggiò il pollice sull'addome, dove tutto volteggiava e non stava mai fermo, in una danza scoordinata e orribile da guardare.
Riccardo scosse la testa: «Di tante cose» disse, e socchiuse gli occhi, la mano che scendeva sul fianco nudo di lui e si tirava appresso una scia di brividi. «Di me, di parlarne... perché so che finirei per rovinare tutto»
La mano di Alessandro gli risalì il petto per potergli accarezzare lievemente una guancia – tre tocchi rapidi, come a volersi accertare che fosse reale, che Riccardo non esistesse soltanto nella sua immaginazione; e poi chiuse le palpebre, senza respirare. Si sporse verso di lui e gli baciò dolcemente la guancia, come non aveva mai fatto prima – labbra calde e sicure contro la sua pelle. Riccardo rimase immobile, l'aria bloccata in gola, il diaframma schiacciato dal peso del cuore, che batteva e impazzava nel petto.
Quando Alessandro si sollevò su un gomito, aveva gli occhi acquosi e calmi come la linea piatta dell'orizzonte, fusa tra mare e cielo. «Dovresti andare» disse, e le sue dita scivolarono via dal corpo di Riccardo, lasciando la pelle formicolante là dove erano state impresse, incise come un marchio a fuoco. «Si è fatto tardi».
Riccardo si mise a sedere, confuso e infreddolito – cos'aveva fatto di sbagliato? «Sì, ma...».
L'idea di doversene andare non lo faceva stare bene, era come chiedergli di alloggiare in un motel dopo aver dormito in un cinque stelle – Alessandro era il suo cinque stelle, e ora gli stava voltando le spalle.
«Fammi restare, Ale...» sussurrò, poggiandogli una mano sul braccio. Alessandro si scosse via di dosso il suo tocco e disse: «Buonanotte, Riccardo».

Afrodite | Mahmood e BlancoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora