10.

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Se nella tua vita non era prevista la mia
mi chiedo
perché non hai lasciato
che il cappio facesse il suo lavoro
e io pendessi
in pasto agli avvoltoi.
Michele Mari

E un'ora dopo il sole era calato, l'acqua della piscina rifletteva il rosa del tramonto e lui e Sara erano ancora su quel lettino; ridevano perché da una stanza del piano di sopra era stato appena lanciato un paio di mutande e il loro proprietario si era affacciato alla finestra, nudo e con il collo sporco di rossetto.
Mentre Riccardo seccava il terzo bicchiere, la schiena appoggiata alla sdraio e le gambe distese accanto a Sara, questa gli fece segno di farsi più in là e gli si spalmò addosso, le mani ovunque sul suo petto.
Riccardo aveva mille pensieri assordanti in testa e il mondo vorticava attorno a lui; si sentiva nell'occhio del ciclone e il ciclone erano i sentimenti che provava per Alessandro – Alessandro, che non aveva le labbra come quelle di Sara, quando lei le poggiò sulle sue. Si tirò indietro e la guardò con gli occhi socchiusi: era proprio bella ed era anche dolce, ma...
«Sara, io...»
Lei sollevò una gamba sulle sue e gli sfregò il ginocchio contro l'inguine. «È solo sesso, dai» e prese a baciargli il collo.
«Ho in testa un'altra persona» borbottò, ma la mano tra i capelli gliela mise lo stesso; e il desiderio di rivincita, di affogare in qualcos'altro tutto quel tormento che gli infuriava dentro al petto – e anche la voglia di fare un dispetto ad Alessandro, a cui forse neanche sarebbe importato – lo spinsero a scendere da quel lettino e a seguire Sara dentro casa, alla ricerca di un posto appartato.
Era mezzo ubriaco e la pelle delle scapole scottava contro il muro su cui Sara lo spinse, appena arrivati in cima alle scale. Si baciarono senza trasporto e a Riccardo andava bene così, perché di provare qualcosa adesso non ne aveva voglia, voleva soltanto soffocare quel suo cuore esigente per un po' – anche se il sesso non è la via di fuga dal fondo, dai...
Le strinse i fianchi e i capelli in un pugno, gli occhi serrati e la mandibola contratta, perché l'unica cosa a cui riusciva a pensare era non pensare ad Alessandro, non pensare ad Alessandro, non pensare ad Alessandro.
Sara gli toccò il pacco da sopra il costume e lui mugolò contro il suo collo, prima che il corpo di lei si appiccicasse al suo – ed era bollente e il suo vestitino le saliva sulle cosce con grazia, mentre lui ci infilava sotto le mani.
«Troviamo una stanza» gli sussurrò sulla bocca, la lingua zuccherina a disegnargli il contorno delle labbra. Riccardo si ributtò su di lei, perché provare a parlare significava dover riaccendere il cervello e ricominciare tutto da capo.
Stava per spingerla contro il muro oltre il corridoio quando dalle scale spuntò la testa rosa di Sfera. «L'ho visto salire qui» stava dicendo. «Non è che sembrasse molto sobrio...».
Riccardo si girò, le mani ferme sul culo di lei, che ne approfittò per prendere a baciargli la gola e le clavicole.
«Oh» mormorò Sfera, bloccato sull'ultimo gradino. «Trovato» e sorrise con malizia, prima di spostarsi più in là per fare spazio a «Mahmood!» strillò Sara, che aveva riconosciuto la voce di Sfera e si era voltata.
Riccardo lo vide bene, quel sorriso cortese spegnersi sul suo viso, la nuvola nera che gli aggrottò le sopracciglia e che si dissipò l'attimo successivo, mentre le braccia di Riccardo cadevano lungo i fianchi e Sara faceva un passo in là per porgere la mano ad Alessandro.
«Non mi avevi detto che ci sarebbe stato anche lui» disse a Sfera, che, appoggiato alla ringhiera, teneva gli occhi fissi sul viso impietrito di Riccardo e che distrattamente rispose: «Non lo sapevo...»
Riccardo si staccò dal muro con una spinta flebile, si passò il dorso della mano sulla bocca e tentò di non barcollare, mentre cercava disperatamente qualcosa da dire – qualsiasi cosa. Gli era bastato vedere Alessandro per mezzo secondo e gli si erano seccate tutte le parole sulla lingua; si sentiva così male che sperava soltanto di non rimettere lì sul pianerottolo, davanti agli occhi indagatori di Gionata, che l'aveva capito che qualcosa non andava – glielo leggeva in faccia.
Alessandro fece un passo indietro e scese di un gradino. «Sì...» biascicò. «Mi ha– mi ha invitato Riccardo» e poi si voltò, indicando il piano terra. «Vado a prendere qualcosa da bere».
Sfera tese una mano a Sara, che lo guardò con fare confuso. «Andiamo» le disse lui – ed era dolce quando al suo «Ma io e...» la tirò a sé per il polso per far passare Riccardo, che si stava già fiondando già dalle scale, in testa soltanto il pensiero di aver rovinato tutto.
Alessandro era lì, si disse, e cercava lui. Che stupido era stato, a credere di poter sciogliere i suoi sentimenti per lui sulla bocca di qualcun altro – quei sentimenti che erano aspri e ruvidi come il modo in cui Alessandro si divincolò dalla sua presa, quando gli afferrò un polso.
«Ale» lo chiamò. «Fermati, ti prego». Aveva la testa annebbiata e non credeva di potergli correre dietro ancora a lungo. Alessandro era sfrecciato lungo tutto il piano terra e poi fuori in giardino: voleva tornare a casa.
«Aspetta un secondo» ritentò. Sentiva le lacrime pizzicargli gli angoli degli occhi e l'unica cosa che voleva fare era saltare addosso ad Alessandro e abbracciarlo, quando finalmente si fermò e si voltò a guardarlo. Era il più bello di tutti, dentro quella casa, il più bello di tutti nel mondo – persino ora, che aveva sul viso l'emozione più brutta di tutto il suo repertorio: l'indifferenza.
Lo guardò con quegli occhi vuoti e le ginocchia di Riccardo tremarono – era riuscito a togliergli di dosso persino la malinconia?
«Io...» iniziò, grattandosi il polso nervosamente. La verità era che aveva soltanto tre parole in testa e anche a volerle scambiare di posto il significato non sarebbe cambiato. Tentò di avvicinarsi – aveva bisogno di toccarlo –, ma Alessandro fece un passo indietro. Il suo sguardo era insostenibile.
«Non mi devi nessuna spiegazione, Riccardo» aveva la voce secca e asciutta e Riccardo si domandò come facesse ad essere così impassibile e freddo nei movimenti, nello sfarfallare costante delle ciglia. Era in grado di nascondere tanto bene il dolore, o quell'ombra di tormento sul suo viso era stata solo una mera allucinazione dell'alcol e del desiderio pazzo che gli infiammava i polpastrelli e la pancia?
«Non è stato niente» disse, perché la spiegazione la doveva a se stesso – perché, prima di quello di Alessandro, aveva tradito il proprio cuore. «Ti prego, guardami» soffiò, allungando una mano verso la sua. Le dita scivolarono impalpabili contro il palmo di Riccardo, come fossero inconsistenti, fantasma.
Alessandro scosse la testa, strappò la mano dalla sua e fece per girarsi. Riccardo gli si parò davanti con uno scatto. «Non mi hai chiamato, mi hai lasciato andare... pensavo che non provassi–» e si interruppe: cos'avrebbe dovuto dire? «Pensavo che non mi volessi» gli girava la testa e aveva il fiato corto, ma l'espressione vuota di Alessandro era ben nitida e definita e lo faceva tremare.
«Esatto» disse. «Non ti voglio».
Riccardo non cercò neanche di nascondere il sobbalzo del suo cuore e il lamento che gli sfuggì doveva essere il riverbero delle schegge avvelenate che gli si erano piantate sotto pelle, una dopo l'altra come una tecnica innovativa di agopuntura. «Ma tu... tu sei qui» mormorò.
Avesse bevuto di meno, questa conversazione sarebbe stata diversa, ma ora non riusciva a controllarsi: si sentiva come se i suoi sentimenti strabordassero da tutte le parti, come la goccia di gelato che scivola sulle dita mentre se ne sta leccando via un'altra. «Sei qui» sussurrò.
Alessandro sospirò e i suoi occhi si fecero grandi quanto la luna alle sue spalle, che spuntava tonda e fiera nel cielo viola del tramonto, e Riccardo ne approfittò per stringergli la vita e appoggiare la testa sul suo petto.
«Lasciami andare» gli disse, ma la voce vacillava dentro a quell'abbraccio disperato, di chi sa che sta stringendo qualcosa che non può essere trattenuto, come acqua scivolosa tra le dita. «Riccardo, lasciami» ripeté, ed era così brutto da sentire che a Riccardo tremò tutto il cuore.
«Non andartene, per favore» singhiozzò. Perché mi sei mancato e perché ti amo – perché questa bestia che ho dentro mi mangia tutti gli organi e io muoio, Alessandro, io muoio senza di te.
Le mani di Alessandro lo spinsero via delicatamente e dentro ai suoi occhi si vedeva che soffriva, che la pelle di lui contro la sua lo faceva stare male, anche se la fronte era liscia e la curva delle labbra non mostrava alcuna emozione. «Non posso» disse, facendo un passo indietro. «Tu... tu sei come tutti gli altri e io non posso».
Riccardo si bloccò, pietrificato dalle sue parole, che erano come mille chiodi arrugginiti piantati a martello nella schiena («Io sono Riccardo, però» «Lo so, tu sei Riccardo»); e rimase immobile, la schiena sussultante di singhiozzi e le lacrime al gusto di piña colada che gli rigavano il viso, mentre Alessandro gli dava le spalle e scappava via.
Aveva rovinato tutto, si diceva, mentre scivolava seduto sull'erba e il mostro ululava e gli graffiava le pareti dello stomaco come un gatto in trappola; aveva rovinato tutto e l'aveva fatto di proposito, perché l'aveva vista, Riccardo, la paura che Alessandro aveva di essere ferito, la paura che aveva di fidarsi delle persone. Eppure l'aveva fatto lo stesso (fidarsi), Alessandro, gliel'aveva detto – «Fidati di me per una volta» «Lo faccio» – e lui di quella fiducia cosa ne aveva fatto? L'aveva estirpata dal petto di Alessandro come la margherita su cui si stava accanendo adesso, accasciato a terra come se ne avesse avuto il diritto – di star male.
Rimase lì, il viso dentro i palmi, finché qualcuno non gli appoggiò una mano sulla spalla; e, quando sollevò il volto, Sfera aveva la fronte aggrottata di chi spera che le cose siano diverse da come pensa che siano. «Stai bene?» chiese.
Riccardo scosse distrattamente la testa, tornando a fissare l'erba. Aveva ancora le sue dita ingioiellate sulla spalla, quando Sfera si sedette accanto a lui. «Tutti fanno delle cazzate, sai...» mormorò. «Se ti può consolare».
Riccardo si asciugò una lacrima con il dorso della mano e ridacchiò. «Non mi consola affatto. Con lui non avrei dovuto».
«Che cosa? Fare una cazzata?»
Riccardo si lasciò scivolare all'indietro e prese a guardare le prime stelle – il cielo era l'unica cosa che potesse consolarlo, quando si trattava di Alessandro. Sospirò così forte che gli parve che un paio di luci, lassù, si spegnessero, come candeline della torta alla festa degli imbecilli, di cui lui era l'ospite d'onore. 
Sfera non riuscì a nascondere il sussulto di sorpresa. «Allora è peggio di quanto pensassi...»
«È sempre peggio, no? Al peggio non c'è mai fine».
«Ma state insieme?»
Riccardo si infilò un braccio dietro la testa e chiuse gli occhi gonfi: li sentiva bruciare come se avesse passato ore a fissare il sole, e invece aveva soltanto spento quello che era negli occhi di Alessandro – sei cambiato, non vedo...
«No, e dopo oggi...» sospirò. Si domandò se ci fosse qualche possibilità che Alessandro volesse vederlo ancora (quantomeno per terminare la maledetta canzone) e si ritrovò ad esprimere il desiderio – testimoni le stelle – che fosse così, perché al pensiero di dovergli stare lontano per sempre si sentiva stringere la gola di terrore, che era come un cappio invisibile che gli toglieva l'aria e la linfa vitale.
Si portò le mani sul viso e poi rotolò sull'erba – perché aveva dovuto rovinare tutto? E per cosa, poi? «Sono proprio un coglione» disse.
Sfera si alzò e si scrollò di dosso qualche fogliolina, poi gli tese una mano. «Sì, abbastanza. Però dopo un long island la coglionaggine un po' passa».

Quella notte chiamò Alessandro, da solo nella sua stanza, mortalmente sobrio e al buio. Quando Alessandro rispose e la sua voce era scura come un'eclissi solare, Riccardo si pizzicò il collo per trattenere un singhiozzo.
«Lo so che non mi vuoi parlare, però io te lo devo dire, Ale».
Alessandro non era a casa sua, lo sentiva dal fruscio ispido delle lenzuola e dai passi leggeri sul pavimento di pietra, dallo scatto della porta del bagno chiusa a chiave, prima che dicesse: «Riccardo, per favore, va' a dormire».
«Sei con il barista?» chiese, perché voleva sentirlo fino in fondo, il dolore che quella risposta gli avrebbe provocato. Era una pugnalata che sapeva di meritare.
«Sono da mia madre. Domani parto, ricordi?»
Ah, e sospirò di sollievo, così forte che Alessandro dovette sentirlo come fossero uno accanto all'altro. «Ah».
«Sì, ah. Io non vado a letto con gli altri per ripicca».
Riccardo strizzò gli occhi – si sentiva il sangue gelare di orrore in ogni capillare, mentre mormorava: «Non era per ripicca». Si rannicchiò contro il muro su cui era scivolato e allontanò il telefono dall'orecchio per guardare la foto di Alessandro sullo schermo. «Volevo solo dimenticarmi di te per un po'».
«E ci sei riuscito?»
Scosse la testa e tremò, mentre diceva: «No, e non lo dico per farmi perdonare, lo dico perché è vero».
Dall'altra parte del telefono si sentì il sospiro sconsolato di Alessandro – il sospiro di chi si sta strappando il cuore dal petto di proposito, perché non ne può più di sentirlo battere instancabile contro la cassa toracica. «Riccardo, io non so che dirti...»
«Lo so, lo so» incalzò lui, che voleva solo farsi ascoltare, dirgli sì, lo so che mi odi, ma io... «Io non ce la faccio a stare così, Ale» e non gli veniva nemmeno da piangere, perché le lacrime le aveva consumate tutte per innaffiare quel prato, accanto a Sfera. «Possiamo vederci? Per favore?»
«Scrivi la tua parte di canzone, ok?» disse Alessandro, la voce pesante come le palpebre dopo una nottata insonne.
«Ma, Ale...»
«Tra due ore ho il volo, Riccardo. Scrivi e basta, ti prego».
Strizzò gli occhi nel buio, stringendosi un braccio attorno al torace per placare il freddo penetrante che sentiva contro il petto, dove una volta le dita di lui lo avevano accarezzato. «Tu lo sai quello che provo, vero?»
Alessandro non rispose, respirò piano dentro il microfono e batté i polpastrelli sul marmo freddo del lavandino. Riccardo si grattò la spalla così forte da sentire in rilievo il segno delle unghie, e disse: «Io la canzone la scrivo, Ale, e la scrivo per te. Devi saperlo che la scrivo per te».
Il singhiozzo di Alessandro riempì l'aria gelida di quella sera d'agosto e stritolò il cuore di Riccardo nella sua morsa micidiale, mentre la voce strozzata di lui gli augurava la buonanotte e pareva venire da un altro pianeta, sommersa nel suono del rubinetto che Alessandro aveva aperto ancora prima di chiudere la chiamata, forse per nascondere alla madre i rumori del pianto.
Riccardo si trascinò alla scrivania e scrisse fino alla mattina, quando l'aereo di Alessandro era già partito e il cielo restituiva alla terra tutte le lacrime che avevano versato.

Afrodite | Mahmood e BlancoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora