𝐕𝐈. 𝐈 𝐝𝐞𝐦𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐨

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E poi levati, sì, dai miei occhiSe possiedi istinto di conservazioneTu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormentoTu vuoi essere, non sembrare di essereMa c'è un abisso tra ciò che sei per gli altri e ciò che sei per te stessoE questo ti ...

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E poi levati, sì, dai miei occhi
Se possiedi istinto di conservazione
Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento
Tu vuoi essere, non sembrare di essere
Ma c'è un abisso tra ciò che sei per gli altri e ciò che sei per te stesso
E questo ti provoca un senso di vertigine per la paura di essere scoperto
Messo a nudo, smascherato
Poichè ogni parola è menzogna
Ogni sorriso, smorfia e ogni gesto, falsità



«Sei un bambino cattivo, ma ricorda che Dio ti perdonerà, se vieni tutte le settimane con me in Chiesa.»

Era cresciuto con quelle parole per anni, era abituato a sentirle dire. Da quando sua madre era morta, suo padre non mancava di ricordarglielo ogni giorno, insieme al parroco di quella piccola cittadina scozzese. Erano incise nella sua mente e sarebbero state seppellite col suo corpo un giorno.
Forgiate nel fuoco della sua sofferenza, lo sapeva bene. Non era mai riuscito a dire addio a quelle parole, perché in fondo era il primo a crederci. Era il figlio di uno stupro, di una violenza, cos'altro avrebbe mai potuto aspettarsi?
Suo padre, anzi il suo patrigno, era troppo addolorato per la morte della moglie, al punto tale che aveva trovato nella fede un'ancora di salvataggio.
Lo costringeva ad andare con lui in Chiesa ogni domenica. Anche quel mattino, l'ennesimo, bussò alla sua porta. «Forza, Jeremiah, dobbiamo andare a messa.» Lo sguardo di suo padre era duro, fermo.

Odiava essere chiamato col nome che quell'uomo aveva scelto per lui, non lo rappresentava affatto. Sua madre gli ricordava sempre che avrebbe voluto chiamarlo Atlas, perché, così come diceva lei,  "sei abbastanza forte come quel gigante, da poter sopportare il peso del mondo sulle tue spalle."
«Mi dai cinque minuti? Ti prego, papà...» mugolò nascondendo il viso nel cuscino.

«Allora salterai la colazione se vuoi dormire ancora. Forza, Jeremiah, il Signore deve perdonarti.» Richiuse la porta alle proprie spalle, lasciandolo solo in quella cameretta deserta.

Non mancava mai di ricordargli i suoi peccati. Atlas si mise seduto e osservò quella stanza così spoglia. Non erano una famiglia ricca, quel poco che aveva gli bastava. Una piccola scrivania era posizionata davanti al suo letto e la luce filtrava solo attraverso una finestra, insieme anche a diversi spifferi di vento. Rabbrividì appena. Roteò gli occhi al cielo quando vide nevicare. Non credeva che Nostro Signore si sarebbe arrabbiato poi tanto se avesse deciso di non andare a sentire la solita messa di Don Fernando. Tanto aveva così tanti peccati accumulati, che uno in più non gli avrebbe fatto la differenza. Scese dal letto, posando i piedi nudi sulle assi di legno del pavimento e rabbrividì, ancora. Assottigliò lo sguardo, quando vide, ancora una volta, quell'odioso gatto dei vicini cagare sul piccolo balcone sul quale si affacciava la sua finestra. I vicini negavano sempre, ma Atlas lo aveva visto quando di notte aveva devastato il pollaio di suo padre. Quel gatto l'avrebbe pagata un giorno.
Iniziò a cambiarsi di fretta, quando suo padre lo chiamò ancora una volta.
Quella domenica Don Fernando sarebbe stato anche loro ospite a pranzo. Da quando era morta sua madre, le sue giornate erano sempre scandite da ore di preghiera e momenti di penitenza.
Sarebbe passata anche quella giornata, doveva soltanto avere coraggio, come diceva la mamma.

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