Capitolo 13 - Fiamme danzerine

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L'impulsività faceva parte di me, non potevo negarlo. Non pensavo praticamente mai più di due volte a una cosa, prima di farla. Ero fatta così, vivevo di emozioni e sensazioni, mi facevo sopraffare e controllare da esse, e non avevo mai pensato che fosse sbagliato.

Pensavo fosse uno dei miei più grandi pregi, vivere le mie emozioni con estrema sincerità e senza alcuna limitazione.

Era uno dei motivi per cui mi consideravo vera.

«Gli ho chiesto una sorella» disse, «gli ho chiesto te».

Mai come in quel momento sentì un impulso, nemmeno un pensiero, perché nulla mi passò per la testa; non ero certamente in me, mi sembrava di essere una spettatrice, qualcuno di esterno che osserva una scena senza però prenderne parte. E andò proprio così, mi guardai tirarmi su, andare spedita verso quel guscio vuoto, quell'anima marcia e irrecuperabile.

Perché quello era, irrecuperabile.

Insignificante.

Sacrificabile.

Vidi me stessa sovrastarla, sbatterle le testa a terra, e afferrarle il collo con entrambe le mani. Lo avvolsi completamente, nonostante le mie mani non fossero grandi, ma il fatto che fosse dannatamente magra rendeva tutto più semplice.

Stringevo con forza, e parole lontane uscivano dalle mie labbra. «Perché? Perché l'hai fatto?!»

Era la mia voce quella, ma non ero io a parlare, io osservavo. «Mi hai fatta portare qua! Mi hai rovinato la vita!»

Gridavo, sbraitavo, le sputai anche in faccia, diverse volte. Lei tossiva, tossiva forte, e cercava di dire qualcosa, così allentavo la presa, cercando di capire cosa volesse dire, ma quando non capivo tornavo a stringere, cieca di una rabbia che non percepivo nemmeno.

Iniziai ai piangere, lo capii quando la vista cominciò ad annebbiarsi; anche Zoe cominciò a piangere, mentre boccheggiava, cercando di racimolare un po' di ossigeno.

Forse fu quello a farmi rinsavire.

Lasciai di botto la presa, e Zoe prese a tossire convulsamente. Io rimasi immobile, a cavalcioni su di lei, ad osservarmi le mani. Quelle stesse mani con cui stavo per ucciderla.

La cosa peggiore era che non mi sentivo in colpa: ero consapevole dell'orrore che stavo per fare, e avevo sempre pensato che non sarei mai stata in grado di fare una cosa del genere, che non avrei mai potuto vivere in pace con me stessa.

Eppure, adesso, credevo che se fosse stata Zoe, avrei potuto convivere comunque con quel pensiero.

Era questo a terrorizzarmi. Non riuscivo più a riconoscermi. Tutto ciò in cui avevo sempre creduto, della mia famiglia, mia madre, non aveva più senso.

Io non avevo più un senso.

Dov'ero? Cos'era rimasto di me stessa? Quanto ero cambiata, e quanto avevo perso per sempre?

Il mio sguardo cadde sulla candela accesa accanto a Zoe. La fiamma si muoveva, sinuosa, leggiadra, in una danza impavida, senza regole ne leggi.

Era proprio così che mi sentivo. Una fiammella che si muoveva nel suo piccolo spazio, desiderosa di ardere e bruciare tutto ciò che aveva intorno, inghiottire ossigeno e farsi strada a forza verso ciò che poteva essere suo.

«Hai detto...» sussurrai, più a me stessa che a lei, «solo una di noi resterà qui».

Lei alzò lo sguardo su di me, gli occhi gonfi dalle lacrime, la pelle del viso arrossata e imperlata di sudore per la fatica. Nel suo sguardo vidi, finalmente, quello che avevo cercato nelle ultime ore: odio, rabbia, e paura.

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