Capitolo 9 - Gioco perverso

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Non ero mai stata una persona sicura di sé, che lottava per quello a cui teneva o per fare ciò che le piaceva. Sentivo lo scorrere del tempo, e non cercavo nemmeno di riempirlo. Vivevo la vita facendomela scivolare addosso, come acqua sulla pelle.

Solo adesso mi rendevo conto del tempo sprecato e che mai avrei recuperato. Vivevo costantemente in un limbo, non mi sbilanciavo mai, ed ormai non incolpavo più mia madre.

Quando mi ribellavo a mia mamma, non lo facevo per l'adrenalina, o per sentirmi viva, ma per farle un torto. Mi inventavo la scusa che fosse per sentirmi come gli altri, libera, ma era tutta una bugia. Non mi era mai interessato niente di nessuno, non vedevo altri che me stessa. Ed ero io, la persona a cui mentivo di più.

Adesso, però, ne avevo abbastanza. Ne avevo abbastanza di nascondermi, di riempirmi di cazzate, di piangere, di avere paura. Era arrivato il momento di uscire allo scoperto, di essere coraggiosa e di lottare per me stessa.

Completa il puzzle.

Le sue parole mi rimbombavano nella mente, ricordandomi che non avevo molto tempo, nonostante non sapessi nemmeno da quanto tempo ero stata rapita. Ore? Giorni? Non ero in grado di dirlo. Forse non volevo nemmeno saperlo.

Sentivo il suono dei miei piedi sbattere contro il legno marcio delle scale a chiocciola. Arrivata in cima, spalancai la porta senza esitazione, ostentando un coraggio illusorio, che non mi apparteneva. Ignorai questa consapevolezza, altrimenti la mia ipocrita sicurezza si sarebbe frantumata in una pioggia tagliente.

Di fronte a me, ad accogliermi, fu l'oscurità. A tentoni cercai l'interruttore della corrente e, quando si accese la luce, me ne pentii immediatamente.

La stanza era piccolina. Le pareti, persino il soffitto, tappezzate di fotografie.

Io non ero in nessuna di esse.

Raffiguravano delle ragazze, le stesse ragazze che avevo visto nelle altre fotografie. Queste, però, erano diverse. Non erano state scattate per strada, insieme alle loro famiglie, o nei loro appartamenti. No.

Erano da sole, in ogni foto. Ed erano qui, in questo posto. Nelle stesse stanze che avevo visto.

Quelle immagini erano crude. I loro occhi terrorizzati, sofferenti, sfiniti. Avevo anch'io quell'espressione?

Attaccati alle pareti c'erano anche ritagli di giornale. Iniziai a leggere un articolo, datato aprile 2007.

Grace Hughes e sua figlia Margaret Castillo sono scomparse sabato 3 marzo. Secondo i genitori della donna quella mattina avrebbero dovuto prendere un aereo per Londra, dove doveva stabilirsi insieme alla figlia. Non hanno mai preso quel volo, e da quella mattina non si hanno più loro notizie.

Più andavo avanti, più mi rendevo conto di ciò che tutto questo significava.

È giallo sulla scomparsa di Lily Reyes, svanita nel nulla la notte di Halloween, lo scorso weekend. Aveva passato la serata in un locale insieme a degli amici, poi si era recata all'esterno per fumare una sigaretta ma, da quella che doveva essere una breve pausa, Lily non è più tornata.

Quindici anni, occhi blu, venerdì stava tornando a casa a piedi dopo la scuola, come ogni giorno, ma succede qualcosa nel breve tragitto verso casa che le fa cambiare direzione. Viene intravista da qualche vicino, dopodiché di Zoe Chavez non si sa più nulla.

Questi nomi non mi erano nuovi. Erano gli stessi che erano stati scritti sulla mia trapunta, accanto al mio. Adesso non solo potevo associare i loro nomi ai volti nelle fotografie, ora conoscevo pure ciò che era accaduto.

Queste ragazze, queste persone, erano state rapite, come me, dallo stesso uomo. Io, adesso, stavo vivendo lo stesso tormento che loro avevano provato prima di me.

Non ero la prima, questo l'avevo già intuito, ma adesso ne avevo la prova. Lui non aveva strappato via solo la mia vita, la mia libertà; lo aveva già fatto prima, più volte.

Perché lo faceva? Quell'era lo scopo di tutto ciò?

Non mi chiedevo più perché io. Mi sarei sentita ingiusta, perché non ero l'unica, non lo ero mai stata.

Mi girava la testa. Sentivo lo stomaco bruciare, ma il motivo non era solo la consapevolezza a cui ero arrivata.

Al centro della stanza c'erano tre manichini, di altezze diverse. Il primo, a sinistra, era il più basso. Aveva dei pantaloncini in jeans, con dei fiorellini disegnati, e una maglietta di un rosa sbiadito. Una parrucca bionda, liscia, lunga fino all'altezza delle spalle.

Aveva una targhetta, puntata sul petto, con scritto Meredith.

Rappresentava la bambina che anni prima aveva rapito. Sentivo lo stomaco contorcersi dalla nausea.

Il secondo manichino era decisamente più alto. Indossava dei pantaloni neri, aderenti, e una maglia verde, anch'essa sbiadita. La parrucca era castana, un po' arruffata, lunga fino all'altezza del seno. La targhetta, puntata sempre sul petto, diceva: Lily.

Mi coprii la bocca col dorso della mano, soffocando un conato di vomito.

Il terzo manichino era l'unico spoglio, anonimo. Non aveva neppure la targhetta.

Non so quale insana curiosità mi spinse ad avvicinarmi, o cosa esattamente mi aspettavo di scoprire, ma sentivo il bisogno di farlo.

I vestiti erano esattamente quelli che indossavano nelle fotografie di quando erano qui, di quando erano state rinchiuse. Erano vecchi, al tatto erano ruvidi e rovinati, ma erano puliti.

Inconsapevolmente mi trovai a passare le dita tra le ciocche bionde del manichino di Meredith. La mia mano risalii fino alla cima, incontrando un tessuto differente. Mi avvicinai ulteriormente, e quello che vidi mi fece desiderare di non averlo fatto.

Venni assalita da un conato di vomito, e rigettai a terra tutto il contenuto del mio stomaco. Sentivo bruciarmi tutto, dalla pancia, alla gola, agli occhi che cominciarono a lacrimarmi.

Ero nauseata, disgustata, incredula. Quei capelli non erano finti. Erano veri. Erano ancora attaccati al cuoio capelluto, alla carne viva di quelle ragazze.

Un altro conato mi percosse lo stomaco. Quelle ragazze era morte, i loro corpi erano stati violati e la loro carne usata come decorazioni.

Mi accovacciai a terra, sul punto di svenire.

Erano state uccise, in questo suo gioco perverso.

🖤🖤🖤

N/A:

Sono risorta dalle ceneri.

Incredibile ma vero, ho aggiornato. Chiedo mille e mille altre volte scusa. Non so nemmeno io quanto tempo ho fatto passare.

Non aprivo wattpad da mesi, forse anche di più, solo ieri sera mi è venuto un flash e ho deciso di aprilo e nelle notifiche ho visto i commenti che mi chiedevano di aggiornare e mi sono sentita una merda. Così, ecco, questo capitolo l'ho scritto oggi, proprio adesso, e nonostante non scrivessi da mooooltissimo tempo, in qualche modo è venuto giù.

Mi dispiace davvero moltissimo, e spero di riuscire a riprendere un andamento "normale" negli aggiornamenti.

Detto ciò, anche se siamo in un periodo un po' fuori dal normale a causa del virus, vi auguro tante cose belle 🌈💘

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