Avevo passato le ultime ore a piangere per quella bambina, che supponevo si chiamasse Margaret, e per me stessa. Entrambe eravamo state strappate via dalle nostre vite, come fossimo stoffa di troppo in un vestito, scaraventate verso un destino a dir poco disumano. Io, però, ero stata più fortunata: avevo vissuto. Non molto, e per quanto a lungo ancora non mi era dato saperlo. Ma avevo avuto più tempo, qualcosa che quella bambina non avrebbe potuto riavere indietro.
Tempo che io stessa, nella mia vita, avevo dato per scontato. Tempo che, ancora una volta, stavo sprecando.Ero esausta, non avevo fatto altro che piangere, con i singhiozzi che mi squarciavano il petto, come lame che affondavano nel mio cuore ancora e ancora. Un dolore che mi impediva di dimenticare ciò di cui quell'uomo era capace. La testa mi pulsava e ogni singola particella del mio corpo richiedeva dell'acqua, un bisogno bruciante, non sapevo per quanto ancora sarei riuscita a resistere. Il tempo passava, impavido come lo scorrere di un ruscello dalla trasparente purezza, e probabilmente avrei dovuto iniziare ad accettare la mia inevitabile sorte.
Non ero in grado, però, di farlo. Ero consapevole di dover ancora fare molte cose, di dover vivere davvero. Avevo dato molto per scontato, nella mia vita, e me n'ero resa conto solo nel momento in cui mi era stato strappato via tutto dalle dita.
Mi ero resa conto di conservare così tanti rimpianti e non ero pronta a lasciarli andare. Ricordavo con nostalgia ogni occasione mancata, con pentimento ogni mio comportamento sbagliato.
Mi stavo compiangendo di fronte all'uomo che mi aveva portato via tutto. Colui che, in fin dei conti, mi aveva dato una possibilità: completa il puzzle.
Dovevo farlo, per me, per quella bambina.
Staccai le fotografie che riprendevano diverse persone e le poggiai accanto alle altre; rilessi i post-it svariate volte, fin quando memorizzai i nomi e le date, dopodiché infilai tutto quanto nelle tasche dei pantaloni. Sapevo di essere sconvolta, perciò non ero molto incline a fidarmi della mia memoria.
Controllai la stanza diverse volte, in cerca di qualcos'altro che potesse essermi utile, ma nulla. Niente, quello che avevo trovato era tutto ciò che c'era.
Non mi spaventai, quando udii il familiare suono acuto che precedeva la dolce melodia; non mi concentrai su di essa, aspettai che diventasse tetra e rimasi in ascolto per le parole dell'uomo.
«Via» disse, poi, quel suono. Sul momento rimasi confusa, non comprendendo le sue parole e il suo atteggiamento. Non era mai stato così diretto e sfuggente, aspettava sempre una mia reazione, tentava di incitarmi in qualche modo. Via, aveva detto. Solo una parola, ma cosa intendeva? Dove potevo andare, dopo tutto?
Mi alzai dal letto su cui mi ero seduta e, con gambe tremanti, camminai lentamente verso l'unica porta. Non sapevo cosa aspettarmi, se la porta fosse aperta o meno, se sarebbe accaduto qualcosa da un momento all'altro, ma avevo un'insana rassicurazione a tranquillizzarmi: chiunque fosse, paradossalmente, non mi aveva ancora fatto del male.
Abbassai la maniglia della porta e tirai verso di me, trovandola aperta. Varcai la soglia ritrovandomi in quel angusto corridoio che ormai avevo imparato a riconoscere. Riconobbi la porta alla mia sinistra, la stanza in cui mi ero risvegliata all'inizio di quest'incubo. La stanza che rappresentava me.
Difronte a me si presentavano due porte, decisi di tentar con quella a sinistra: era vecchia, il legno consumato, la vernice ormai logora. La porta era aperta, all'interno la stanza era illuminata da una lampadina appesa al soffitto, dalla quale spuntavano i fili scoperti.
Pensavo di trovarmi difronte l'ennesima camera da letto macabra e inquietante, al contrario mi ritrovai in una cucina. Mi guardai intorno, elaborando ciò che vedevo. La stanza era davvero piccola, la cucina era antica, in legno scuro e occupava solamente una parete. Era formata da un frigorifero, un lavello, un vecchio forno, quattro fornelli e gli sportelli delle piccole dispense. Un tavolo, sempre in legno scuro, era sistemato al centro della stanza, circondato da quattro sedie. Una busta di cartone col logo del Mc Donald's giaceva al centro del tavolo.
Quasi corsi per guardarne all'interno, sperando fino all'ultimo di non trovarla vuota. Contro ogni precedente pensiero in cui immaginavo che lui mi avrebbe fatta morire di fame, trovai quel sacchetto pieno.
Mi riempii la bocca di patatine fritte, ormai fredde, mentre tiravo fuori il contenuto della busta. Mi ingozzai con tutto il cibo che quell'uomo mi aveva fatto trovare, lottando con i sensi di colpa dettati dal fatto che fosse stato lui a procurarmelo. Colui che mi aveva rapita, allontanandomi dalla mia vita, aveva lasciato del cibo per me. Voleva che mangiassi, non che morissi di fame e, indubbiamente, lo preferivo all'idea di morire, ma... perché?
Ero già riuscita ad ammettere che, chiunque ci fosse dietro al mio rapimento, non mi aveva fatto del male fisico, eppure non riuscivo a scacciare quella sensazione di aver, ormai, poco tempo a disposizione. E sarebbe stata solo colpa sua.
Per questo mi sentivo in colpa: accettavo qualcosa, in questo caso il cibo, da chi mi aveva portata via dalla mia vita e, probabilmente, mi avrebbe strappato quest'ultima.
Ma i sensi di colpa non superavano i crampi dolorosi della fame; stavo ferendo il mio orgoglio, in qualche modo, ma sopravvivere era più importante.
Quando finii di mangiare sentii i miei occhi inumidirsi. Dopo tutte le lacrime che avevo versato ero persino sorpresa di riuscir ancora a piangere. Le emozioni erano forti, dolorose e travolgenti.
Mi concessi di farlo un'ultima volta.
Piansi per la vita che mi era stata portata via. Piansi per mia madre, la persona che aveva sempre cercato di donarmi il suo affetto infinito. Piansi per Michael, l'unico ragazzo di cui mi ero innamorata. Piansi per Julia, l'unica amica che avevo.
E piansi per me stessa, la versione peggiore di me stessa.Versai ogni lacrima, cercando di dar un significato ad ognuna di esse, fino ad aver gli occhi gonfi e le tempie doloranti. Poi camminai fino al lavello della cucina e mi sciacquai il viso sotto l'acqua fredda, svegliandomi da quel torpore in cui mi ero abbandonata.
Non era più il momento di piangersi addosso, era arrivato il momento di lottare. Lottare per la vita che avevo sempre disprezzato e che ora rimpiangevo più di ogni altra cosa. Lottare per i miei affetti, per l'unica famiglia che avevo sempre avuto.
Qualunque fosse lo scopo di quell'uomo, non gliel'avrei data vinta facilmente. Ripetei quella frase come un mantra, mentre mi avvicinavo alle scale a chiocciola presenti nella stanza.
🔥🔥🔥
N/A:
Ho aggiornato e non ci credo nemmeno io.
Per giustificarmi posso dire che questa storia non mi piace affatto, ne come l'ho scritta ne come la continuo. L'idea di base è una gran figata, almeno per me, ma nella mia testa è tutta un'altra storia.
Se fossi brava in questo genere probabilmente sarebbe venuta fuori davvero una bella storia, purtroppo per me (e per voi) non è così. Nonostante ciò, anche se con aggiornamenti distanti tra loro, la concluderò, questo perché lasciare le cose a metà non mi è mai piaciuto.
Detto ciò, spero apprezziate comunque i miei sforzi. Vi saluto e vi auguro tante cose belle🌈
STAI LEGGENDO
Gioco perverso
Mystery / Thriller«Lasciami in pace, ti prego.» «Non adesso. Ora è tempo di giocare, piccola Lèa.» Quando non fai che pensare a te stessa, ai tuoi limiti e non pensi a nient'altro, tutto il resto ti sfugge di mano. Rifiuti persino la protezione e la fiducia delle per...