Capitolo 5 - Un tornado di emozioni

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Le sue parole rimbombavano come un eco nella mia testa, ma non era tanto il suo discorso ad incutermi terrore, bensì la sua voce. Il suon di lei mi ripercuoteva ogni qual volta ero sul punto di dimenticarla, ma lei non voleva essere riposta in un angolino tra tutti i miei pensieri, voleva essere al centro. Voleva che la sentissi. Mi dava il tormento.

Ero inerme, non potevo che fare ciò che voleva. A che scopo, però? Scostai la trapunta dai miei piedi nudi e li poggiai a terra, alzandomi dal letto con gambe tremanti. Ad ogni passo i pensieri si accavallavano l'uno sull'altro, non dandomi il tempo di analizzarli. Mi avvicinai alla porta e rimasi ad osservarla. La vernice rossa di stava scrostando su più punti, logorata ormai dallo scorrere incessante del tempo. Come precedentemente avevo notato, sulla porta non c'era alcuna maniglia: come credeva avrei potuto aprirla?

Lì, un'altra consapevolezza s'intrufolò tra i miei pensieri: mi aveva ingannata. Quello era il suo scopo? Farsi beffa di me? Restituirmi un minuscolo briciolo di speranza, tanto quanto sarebbe bastato da aggrapparmici, per poi strapparmelo via dalle dita... con lentezza, però, in modo da farmi capire che lui ne aveva il potere. Era crudele, disumano, ma perché con me? Cosa avevo fatto io per meritarmi tutto ciò? Ero consapevole di non essere proprio una brava persona ma non credevo che quella fosse una punizione adeguata. Non lo era affatto. Volevo tornare a casa, rifugiarmi tra le braccia di mia madre e chiederle perdono per tutto il male che le avevo inflitto. Volevo un'altra chance, azzerare ogni mio passato atteggiamento e ricominciare da capo. Volevo qualcosa di nuovo e l'avevo capito solo allora, quando tutto mi era stato portato via dalle mani, sotto ai miei stessi occhi. 

Per l'ennesima volta crollai in lacrime. Sembravo fossi in grado di fare solo quello, crollare, cadere sempre più in fondo, quando un fondo non c'era mai.

Gridai, furiosa con me stessa. Così fragile e distrutta, provavo pena per la persona che ero diventata. Aprii tutti i cassetti del mio cuore, facendo fuoriuscire ogni sentimento: schizzarono via trasportati da un vento impetuoso e si riversarono ovunque, in me. La mia testa era un tornado di emozioni contrastanti, mentre orribili pensieri si insinuavano nel mio cervello. Non ne potevo più, ero stata rapita e qualcuno si stava approfittando, in qualche modo, di me. Tra tutte le emozioni a prendere il sopravvento fu la rabbia: la sentivo scorrermi nelle vene, entrarmi nelle ossa, battere insieme al mio cuore; la lasciai fare. Urlare non mi bastava più: dovevo colpire qualcosa, spaccare qualcosa, spaccarmi qualcosa.

Assestai dei calci alla porta e questa su spalancò, lasciandomi libera uscita. Non mi aveva preso in giro, la porta era davvero aperta. Annaspai in cerca d'aria, improvvisamente colpita da una nuova sensazione a cui non riuscii a dare un nome. Avevo perso tempo a piangere e autocommiserarmi, senza neanche provar ad aprire la porta quando bastava la spingessi. In un attimo mi sentii piccola, minuscola, insignificante.

Ingoiai la sensazione di pericolo che avvertivo provenire al di fuori della porta e sporsi la testa per osservare il piccolo corridoio che separava tre diverse stanze: due alla mia sinistra, una alla mia destra.

Destra, aveva detto l'uomo. Il mio corpo tremava come una foglia nel momento in cui mi decisi a superare la soglia della camera in cui ero stata fino a quel momento, per ritrovarmi un corridoio grigio, spoglio, dove l'aria fredda mi pizzicava le caviglie. Mi avvicinai alla porta alla mia destra, con qualche macchia di vernice gialla, probabilmente ciò che n'era rimasto. Appoggiai la mano alla maniglia e l'abbassai. La porta si spalancò e il buio più totale mi diede il benvenuto, ma scomparve dopo qualche secondo, dando spazio alla luce. Non l'avevo accesa io, perciò dedussi l'avesse fatto il mio rapitore che, probabilmente, mi stava osservando. Non era possibile ci fosse un sensore o tecnologie del genere, quel posto era vecchio, sul punto di crollare.

Varcai l'entrata di quella stanza e mi guardai intorno; le pareti bianche erano sporche e impolverate, si erano anche formati degli strati di muffa. Contro la parete di sinistra era posizionato un letto a una piazza, accanto c'era una vecchia scrivania in legno, ricoperta da fogli, pennarelli, matite e altri oggetti. Al contrario della stanza in cui ero precedentemente, nulla di tutto ciò sembrava appartenermi. Mi avvicinai alla scrivania, notando i numerosi disegni scarabocchiati sulla carta, chiunque li avesse fatti non era molto abile nel disegno e solo uno di essi era comprensibile: la raffigurazione di una persona seduta su una sedia difronte ad una parete e, sulla soglia della porta, era stata rappresentata un'altra persona. Era disegnato a matita, non era stato colorato e mi trasmetteva un grande senso di solitudine, anche se le persone rappresentate erano due. Aprii i cassetti, curiosa di sapere cosa avrei trovato; al suo interno giaceva una sola fotografia: ritraeva una bambina, sembrava avesse all'incirca dieci anni, aveva i capelli di un biondo scuro raccolti in un elegante chignon, i suoi occhi, di un limpido azzurro - tanto da farmi venire la pelle d'oca - guardavano dritto l'obbiettivo. Le labbra sottili erano aperte in un sorriso divertito e spontaneo, come se al momento dello scatto fosse scoppiata a ridere. Si trovava in un parco giochi e, dalla poca luce e l'assenza di altri bambini, dedussi fosse tardo pomeriggio.

Non avevo mai visto quella bambina, anche se non potevo esserne certa. Insomma, non ero il tipo da ricordarsi ogni volto visto in vita sua, ma non credevo di conoscerla. Allora... chi era quella bambina? Cosa faceva lì quella fotografia?

Sapevo fosse inutile porsi altre domande, non avevo la risposta e non credevo l'avrei ricevuta. Ma potevo non domandarmi cosa avessi a che fare io con quella bambina, con tutto ciò che mi stava accadendo?

Ebbi il tempo di chiedermelo per un tempo indefinito, perché la porta da cui ero entrata si chiuse improvvisamente con un forte tonfo, facendomi urlare per lo spavento; sentii il suono della chiave nella serratura e, immediatamente, corsi verso la porta. Tirai, scalciai, mi ci buttai contro. Ero in preda ad una crisi isterica. Non poteva avermi nuovamente chiusa in una stanza. No.

Perché lo faceva? Qual era il motivo? Cosa c'entravo io in tutto ciò? Ma il centro dei miei pensieri, al momento, era buttare giù quella fottuta porta. Provai, provai e riprovai fin quando rimasi senza forze e crollai a terra esausta. Il buio mi raggiunse ed io mi lasciai avvolgere dalle sue morbide braccia.

Desiderai restar così per sempre.

🌘🌗🌒

N/A:

Sì, alla fine l'ho tagliato, perciò è molto corto. Sinceramente non è che mi piaccia, ma non riesco a scrivere altro, mi spiace.

Spero comunque che possiate apprezzarlo! Fatemi sapere😿

Vi auguro tante cose belle 🌈

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