Capitolo 11 - Il loro gioco

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Tra me e Zoe calò il silenzio, leggiadro e pesante allo stesso modo. Era tangibile e allo stesso tempo impalpabile, separava e univa, due sconosciute legate da un destino ignoto.

Restai seduta a terra, tenendo quanta più distanza possibile tra me e lei. Avevo la mente a brandelli: continuava a scervellarsi, mentre cercavo continuamente di bloccarne i pensieri. Mi sentivo in continua lotta con me stessa, esaurendo le mie energie che lentamente defluivano via dal mio corpo, insieme ad ogni respiro.

Ma non volevo arrendermi. Nell'istante in cui avevo pensato ad una possibile fuga, avevo deciso che non avrei lasciato quell'idea scivolare via. Non volevo diventare come Zoe, che si era arresa al suo destino. Ero sempre stata caparbia, e mia madre ne aveva pagato le spese, non avrei smesso proprio ora.

Poi, come un velo invisibile che ricopriva l'intera stanza, il silenzio venne strappato via dai nostri corpi, rivelando parti scoperte, anime vulnerabili e corpi tremanti.

«Solo una di noi resterà qui.» E la dubbia quiete che fino a quel momento aveva occupato il nostro silenzio, tremò.

Zoe pronunciò quelle parole senza alcuna inflessione, dopo molto tempo, come se ci avesse pensato a lungo, o forse le uscirono di getto. Le disse, semplicemente, come se non avessero chissà quale importanza, o forse fin troppa, perforando ogni centimetro del mio corpo, insinuandosi nel profondo. Era un'affermazione potente, la sua. Qualcosa che avrebbe cambiato ogni cosa, decisione e percezione.

«Cosa vuol dire?» chiesi, con tutto il coraggio che mi restava. Quelle parole mi avevano terrorizzata, ma non ero stupida o ingenua. Avevo già capito, prima di formulare la domanda, ma avevo bisogno di risposte, avevo bisogno di certezze in un luogo che distorceva la percezione del tempo e dello spazio. Ormai avevo bisogno di accertarmi persino di cosa fosse reale o meno.

«Non hai ancora capito?» disse, voltandosi verso di me. I suoi occhi mi gelarono sul posto, emittenti di una non tanto velata accusa. «Hai completato il puzzle?»

«Ancora?» La rabbia montò. «Anche tu con questa storia?» urlai, alzandomi in piedi. Questi intrighi continui, gli indovinelli, il "gioco", come lo definiva lui, mi avevano stufata. Volevo la verità.

«Che cazzo vuol dire? Di che cazzo di puzzle parlate?» Forse stavo esagerando, e me ne resi conto dall'espressione sempre meno impassibile di Zoe, ma non mi interessava. Ero pervasa da una rabbia che conoscevo fin troppo bene, l'adrenalina mi scorreva tra le vene, le mani prudevano, vogliose di muoversi, agitarsi, di scaricare tutta quell'emozione che trattenevo a fatica.

«È questo il gioco, Lèa!» Anche Zoe si alzò in piedi, furente. Per un attimo credetti che le sue gambe, talmente sottili, non fossero in grado di reggere il peso del suo corpo, ma dovetti ricredermi.

«Non me ne frega un cazzo del gioco! Voglio andarmene da questo posto di merda!» Ero tutta un fuoco, pronta ad incendiare chiunque avessi a tiro.

«Non andrai da nessuna parte fin quando il gioco non sarà terminato!» gridò, con tutto il fiato che aveva in corpo. Si avvicinò a me, lasciando poco più di un metro a separarci. La voglia di azzerare le distanze per prenderla per i capelli sparì nell'istante in cui sorrise. Un sorriso infido, sornione, che le distorse il volto in un espressione tetra, tanto da farmi venire la pelle d'oca. «Tu ed io siamo sorelle, Lèa» disse, e il suo sorriso si allargò ancor di più.

Mi sfuggì una risata nervosa. Un leggero soffio di labbra, che mi appesantì il cuore. «Non è vero.»

Sembrava divertita dai miei occhi spaesati, dalle parole che volevo ma non riuscivo a pronunciare. «Lo è, invece.»

Per lei era un gioco. E la consapevolezza mi colpì in faccia. Questo era un gioco. Per lui, per lei, era tutto un gioco. Il loro gioco.

«Smettila.» Barcollai all'indietro, allontanandomi di un passo. Adesso volevo allontanarmi il più possibile da lei, dal suo sorriso perverso, da quello sguardo gelido.

«Non noti la somiglianza?» Si avvicinò di nuovo. «Abbiamo gli stessi occhi.»

Mi allontanai ancora. «No.»

Non le credevo. Non potevo crederle. Mia madre me lo avrebbe detto, se avessi avuto una sorella. Non mi avrebbe mai nascosto una cosa del genere. O, almeno, lo speravo.

«Lo stesso padre.»

«Non è vero!» gridai con rabbia, continuando però ad indietreggiare. No. No. Non è così. Lo ripetevo come un mantra.

«Come fai ad essere così stupida?» Mi schernì.

«Smettila!» Non ero solo arrabbiata, ero esasperata. Doveva smetterla.

Lei, però, non era della stessa opinione. «È stato nostro padre a portarci qui.»

«Basta!»

La cosa peggiore, e quella che più mi dava alla testa, era l'espressione compiaciuta che aveva stampata in faccia. «Vuole giocare. A te non piace giocare?»

«Ti ho detto di smetterla!» urlai. Non ne potevo più. Non vedevo più niente. Mi lanciai contro di lei, atterrandola. Lei rideva, e più rideva più la mia rabbia aumentava. Gridavo, gridavo come una matta, la colpivo, volevo farle male. Più la colpivo, più rideva, e più rideva, più la mia furia cieca aumentava. Mi colpiva a sua volta, sanguinava, ma non un accenno al dolore.

Sentivo le vene pulsare tanto da farmi male, sapevo di avere gli occhi iniettati di sangue e so, che se quell'uomo non mi avesse presa di peso e allontanata da lei, l'avrei uccisa.

🥶🥶🥶

N/A:

Non so nemmeno quanto tempo sia passato (e vi chiedo scusa), ma eccomi qua, a due capitoli dalla fine.

Il capitolo vi è piaciuto? Credete che Zoe stia dicendo la verità?

Oltre a queste domandine, volevo tranquillizzarvi: per il prossimo capitolo non dovrete aspettare la prossima vita ultraterrena, perché i capitoli sono tutti pronti, e li pubblicherò uno ad uno in questi giorni.

Credo di aver detto tutto, e come sempre spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi auguro sempre il meglio🌈

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