Prologo

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Immagine: 'Nave in una tempesta' di Ivan Aivazovsky. - https://www.falsi-d-autore.it

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Un cuore che batte o forse un respiro, il tempo senza fine delle onde che si rovesciano su un corpo stanco, fatto di legno vecchio impastato di pece e salsedine. Ventre buio stipato di corpi.

Shamira inspirò piano una boccata di quell'aria greve, acida dell'urina e del su­dore degli emigranti ammassati nella stiva della nave, e si passò la punta della lingua sulle labbra, aride quanto Kreen, la sua terra di là dal mare.

C'era la siccità, la peggiore da quando i Kadir, sui loro draghi dalle ali piumate color del sangue, erano arrivati dal cielo quattordici estati addietro, saccheggiando la valle e ucciden­do chi non era stato abbastanza veloce a cercar scampo oltre le colline. Così raccontavano gli anziani.

Shamira, che la valle non l'aveva mai vista poiché era nata poco meno di un'estate dopo quei fatti, affascinata dai racconti colmi di rimpianto per una terra fertile, dove per vi­vere bastava tendere la mano ai suoi frutti spontanei, una volta si era inerpicata su per le aspre alture, decisa a guardarla almeno da lontano.

La delusione era stata cocente quanto l'afa sotto il cielo abbagliante, ostinatamente sgombro di nubi. Oltre le alture non aveva visto alberi e pascoli, ma le ferite spalancate del­le miniere a cielo aperto, intorno a cui gli uomini brulicavano come le mosche su una caro­gna infetta abbandonata al sole. Un sole eterno, implacabile, feroce, che prosciugava la terra e le speranze di chi, contro le zolle spaccate dal calore, combatteva una lotta quotidiana.

Poi era apparso.

Shamira ricordava la macchia d'ombra che le si era allargata intorno, intercettando la vampa accecante del sole. Quando aveva levato il naso in su, lo aveva visto precipitare ver­so di lei, sempre più veloce e grande, come se dovesse inghiottirsi il cielo intero. All'ultimo istante aveva spalancato le ali immense con uno scricchiolio di rami secchi e lo sposta­mento d'aria l'aveva scaraventata a terra e fatta ruzzolare a diverse braccia di distanza.

Un drago da vicino Shamira non l'aveva mai visto, ma non ebbe dubbio alcuno su cosa fosse, quando riuscì a spingersi in ginocchio e a osservare, terrorizzata e affascinata insie­me, il possente corpo serpentiforme, dalle squame rilucenti come sangue vivo, veleggiare ap­pena oltre il margine dello strapiombo, sostenendosi sulle correnti ascensionali con lenti col­pi delle ali, dalle piume screziate in tutte le sfumature della viva fiamma.

Ricordava gli occhi brillanti come scaglie di carbonchio, il muso crestato di placche d'oro e corna acuminate, trattenuto da corregge di cuoio e placche di metallo a un paio di lunghe redini. All'altra estremità l'uomo che le stringeva cavalcandolo fiero, col volto celato da un elmo amaranto acceso da barbagli di luce riflessa: un Kadir. A un certo punto la belva aveva spalancato le fauci, con denti acuminati lunghi come il braccio di un uomo, e aveva risucchiato aria come un mantice, mentre il petto gli si accendeva del fulgore di un sole scarlatto sotto la pelle scagliosa. Fu allora che un secondo drago si avventò sul primo precipitando con lui fuori dalla sua vista.

Shamira non vide altro. Ruzzolando e inciampando continuò a correre fino a quando non raggiunse il rifugio della sua capanna in fondo al villaggio.

Erano trascorse tre estati da allora e le cose non erano mutate.

Piogge rade e bocche troppo numerose. Per la sopravvivenza della comunità, quell'e­state, in ogni capanna si era scelto a chi toccasse partire.

Naima, sua sorella maggiore, aveva già abbandonato il villaggio poche lune dopo il suo incontro con i draghi. Forse si era stancata delle continue discussioni con il padre, per nulla grato che le riuscisse di procurare del grano da macinare anche quando le spighe inaridivano sugli steli troppo fragili. Di lei, ormai, nessuno parlava più, come se non fosse mai esistita.

Sa­lim, il fratello minore, aveva appena iniziato a muovere i primi passi.

E così era toccato a Shamira prendere la via del mare. Shamira dalla pelle chiara come la sabbia del deserto, per­ché quella notte della fuga dalla valle, la sua mamma aveva patito un tale spavento che la paura le era entrata sin nella pancia, scolorando la pelle della sua bambina. Così raccontava­no le vecchie. Suo padre a quelle storie si limitava a corrugar la fronte e a distogliere lo sguardo. Eppure la paura doveva essere stata proprio grande, a giudicare da quanti ragazzini pallidi della sua stessa età c'erano al villaggio.

Molti di loro erano stati prescelti per il viaggio.

- Perché nella terra di là dal mare, con la vostra pelle chiara, vi sarà più facile trovare un buon lavoro - aveva spiegato sua ma­dre, carezzandole i fitti capelli bruni un'ultima volta. Poi li aveva pettinati con cura rac­cogliendoli in tante treccine sottili. Infine le aveva mietute una per una come piccole spighe mature, trasformandole la sommità del capo in un campo ricoperto da un velo di stoppie color cacao.

- Per ogni luna che resterai lontana da Kreen - aveva detto sua madre riponendole una per volta sul fondo di una giara. - Le conserverò per te, come tu conserverai questo fino a quando tornerai a restituir­melo - aveva sussurrato cingendole il collo con una sottile stringa di cuoio, cui era appeso un pezzetto di metallo opaco foggiato nelle sembianze del dio Krun.

Ora Shamira respirava piano e stringeva la figurina tra le dita. Quel ciondolo lei lo conosceva bene. Era appartenuto a Naima.

Perché lo aveva sua madre se sua sorella era partita senza salutare nessuno? E perché se ne era andata via a quel modo? Forse temeva che le sarebbe mancato il coraggio? Che non avrebbe saputo trattenere le lacrime?

Per non intristire sua madre, Shamira non aveva pianto il giorno della partenza e neppure durante la traversata a piedi nel deserto, quando alcuni dei suoi compagni si erano addormentati tra le dune senza più rialzarsi, troppo stanchi per continuare a camminare.

Ma lì, nel ventre buio della nave, aggrappata a quel frammento di metallo come se fosse l'unico appiglio per non affogare, le lacrime avevano iniziato a scendere, ancora e ancora, come la pioggia da troppo tempo esiliata dai cieli di Kreen.

La Ragazza che veniva dal Mare #wattys2023Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora