Capitolo 9

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"Avevi ragione Barb, avrei dovuto andarci piano. Adesso tutto il mio cuore gli appartiene e io ho dovuto strapparmelo dal petto per non restare contaminata. Ho dovuto, Barb, lo capisci?". Singhiozzavo nel telefono, mentre la mia amica diceva parole che non stavo davvero ascoltando. Volevo solo stare a letto, volevo solo capire perché, nonostante avessi abbandonato il mio cuore sulla moquette di quel bagno fetido, continuava a farmi male. Era come un arto fantasma. Io ero sicura di non averlo più, un cuore, ma lo sentivo pulsare, lo sentivo dolere. Le fitte erano insopportabili.

Quando subisci una delusione d'amore non riesci mai a capire se quello che stai provando è normale. La rottura ti fa fisicamente male, e ti chiedi se quel forte dolore sia una malattia o se sia solo un'emozione. Ti chiedi in quanto tempo passerà, se mai passerà, se dopo tornerai a vivere come prima. Se potrai correre, camminare o andare sull'altalena. Io, purtroppo, ho sempre amato più del necessario e ho sempre donato la quasi totalità delle mie capacità psicofisiche per riabilitare l'altra persona. Questo è IL problema di chi, per sentirsi meritevole d'amore, si improvvisa genitore, o medico, o salvatore. Non ci resta più nulla, alla fine. Ci sentiamo vuoti, stanchi, doloranti, drenati, e tremendamente colpevoli. Come quando trascorri una giornata fuori, perché c'è bel tempo, perché alla fin fine te lo meriti, e quando torni a casa e ti affacci in terrazza, trovi il Basilico a terra. Che poi quello fa il drammatico, mica è davvero morto, solo che tu stai lì a sentirti in colpa per non essere stata presente. Perché avresti potuto agire in modo diverso, perché avresti potuto fare di più, fare di meglio. Perché ti avevano sempre detto che "nella vita puoi fare quello che vuoi, ne sei capace" e ti avevano illuso di poter affrontare qualsiasi cosa. Che ti potevi caricare sulle spalle il peso dell'intera umanità, tanto ce l'avresti fatta a sostenerlo. E tu ci hai anche creduto, per un po'.

A me era già capitato, in passato, di aver avuto dolore al cuore a causa di un altro essere umano. Avevo impiegato tutta la mia adolescenza in una relazione "seria" che di serio aveva poco e niente. Eravamo immaturi, talmente piccoli da non avere ancora chiare le rispettive priorità. Era destinata a finire perché ci stavamo evolvendo, stavamo formando le nostre personalità e decidendo chi saremmo voluti essere. Con il passare degli anni, in un'età sensibile come l'adolescenza, cambiare è normale. Cambiano gli interessi, cambiano i bisogni, cambia l'aspetto fisico. Io non avevo considerato questa evoluzione, anzi, mi ero adagiata su di lui, sicura che ci sarebbe stato per sempre. E invece non era altro che uno sconosciuto. Quando il nostro amore terminò, mi ritrovai senza terra sotto i piedi, e dovetti ricostruirmi pezzo pezzo, catapultata in una dimensione di cui non avevo mai considerato l'utilità: la solitudine.

Da quell'episodio promisi a me stessa che non avrei mai più costruito le fondamenta della mia persona sulle basi della presenza di qualcuno.

C'è davvero bisogno di smettere di demonizzare la solitudine. La solitudine non è una cosa brutta: l'avevo imparato da piccola, quando restavo sempre in disparte perché non avvezza alla socialità. Gli altri bambini non vedevano l'ora di farsi nuovi amici per giocare tutti insieme. Io ne avevo solo uno, di amico, e neanche mi garbava l'idea di condividerlo con altri. Preferivo leggere un libro, guardare un cartone animato, comporre un puzzle, piuttosto che stare in compagnia di tante piccole persone urlanti. A ventuno anni, sono un'introversa con un sacco di hobby solitari, e non mi dispiace affatto. Nella solitudine ci si ritrova, quindi bisogna godersela. Lasciarsi attraversare da quel sentimento così primordiale e ricercarvi un personale equilibrio.

Passai una mattinata con Barb, che non mi vide arrivare a lavoro e mi chiamò preoccupata. Mi sentivo in colpa perché avevo dimenticato di avvisarla, ma non lo avevo proprio dimenticato. È solo che in confronto alla notte che avevo appena passato, non mi sembrava poi così importante. Avevo delle emozioni da elaborare. Lei si presentò a casa mia circa venti minuti dopo avermi sentita piagnucolare al telefono. Era stata così gentile da portarmi una brioche, la mia colazione preferita, che però rimase sul tavolo due giorni prima di finire nel cestino della spazzatura. Dopo una rottura, le persone si distinguono in due macro gruppi: chi mangia per dimenticare e chi digiuna per sostituire il dolore emotivo con il dolore fisico, decisamente più tollerabile. Io rientravo nella seconda categoria.

𝐔𝐧𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐚 𝐬𝐞𝐭𝐭𝐢𝐦𝐚𝐧𝐚Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora