Un filo di voce solitario

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Pov Sherlock

Era divenuto spettatore. Spettatone all'interno della sua mente. Il suo corpo, dissociato dalla propria mente, aveva preso il controllo. Da solo aveva afferrato il braccio di William e sempre da solo aveva chiuso quella dannata porta. Non poteva controllarsi, questo l'aveva capito, eppure possedeva pieno comando della propria mente, voce e coscienza.

La distanza fra loro si era ridotta a una decina di centimetri. Dieci miseri centimetri. Poteva sentire il profumo della colonia di William: amaro e composto, caldo e presente. Non era pensato per passare inosservato, come William dopo tutto, nonostante ciò non c'aveva mai fatto caso sino a quel momento.

Eppure il detective si ritrovato spesso a guardare l'uomo che aveva di fronte per il solo gusto di farlo. Semplicemente lo guardava. Non lo studiava, non lo analizzava. Sebbene ammetteva di averlo già fatto in passato, come dopo tutto era rutine per lui alle nuove conoscenze, con William era diverso. Conoscendosi sapeva bene che mai si sarebbe interessato così a una persona "comune"; così tra sé e sé definiva tutti colore che per lui erano semplicemente un libro aperto, dimenticato su qualche tavolino da caffè, tra una chiacchiera e l'altra. Ovviamente a ciò venivano incontro eccezioni, come Watson o la Signora Hudson, ma adesso non era questo il caso.
Era ovvio che Moriarty era in qualche modo "speciale". Ed era altrettanto ovvio che non aveva nulla a che vedere con le centinaia di pecore che fino ad allora aveva incontrato. Al contrario aveva intuito, e col tempo ormai confermato, che l'uomo ormai ad un palmo da se attirava la sua attenzione più di chiunque altro avesse mai fatto. Lo ammirava e lo rispettava, su questo non aveva nessun dubbio, ciò che però non capiva e non riusciva a decifrare era quello strano tremore che, costantemente e incessantemente, sentiva in presenza dell'uomo. Era come un chiodo fisso dentro si se che, seppure ben visibile ai sensi non lasciava trapelare alcuna goccia di dolore. Un continuo bussare, forse l'avrebbe definito. Un infermabile bussare dentro di se. Lì, fermo, immobile. Mai si spostava e mai cambiava d'intensità.


O almeno così pensava di credere perché proprio in questo preciso istante, quando solamente un filo d'aria li separava, quel bussare si tramutò in calci e poi pugni e poi ancora in martellate spostandosi a destra e a sinistra nel suo ventre, per poi salire fino al petto e fermarsi all'altezza del cuore. Faceva male sì, ma non un male fisico bensì quasi mentale. Ma nonostante ciò non gli dispiaceva. Si giovava in quella violenza che William sembrasse gli stesse donando, o magari passando. Guardandolo solamente adesso, dritto negl'occhi, riusciva infatti a leggere ciò che dentro di lui, dentro di loro, stava avvenendo.

Entrambi stavano venendo sotterrati da un qualcosa che non si potevano spiegare, o almeno non adesso. Erano divenuti l'uno bersaglio dell'altro, l'uno influiva sull'altro. Entrambi cedevano e assorbivano, inconsapevolmente, parte di loro e vice versa.

L'aveva capito da tanto, da troppo, che loro due non si vedevano come persone per l'un l'altro. Alla gente con ogni probabilità sarebbero apparsi come una compagnia mal assestata: un nobile uomo e un detective eccentrico. "Compagni di passaggio" "Conoscenze casuali" così avrebbero commentato.

-L'hai capito pure tu William, ci potrei scommettere e tu sai che non perdo facilmente. L'hai capito pure tu che noi siamo come calamite. Due posi opposti, due personalità opposte, due vite opposte, eppure non sono l'unico ad averlo notato, dico bene? Le nostre menti seguono la stessa onda, lo stesso flusso, non puoi mentirmi. Io ti leggo, come tu leggi me.- non sapeva se ciò rimase un pensiero o effettivamente riuscì ad uscire dalle sue labbra, con un filo di voce solitario magari.

Ciò che però sapeva per certo era che esse non rimasero aperte a lungo. Con uno scatto, se pur breve, William si era fiondato su di lui e con le sue stesse labbra aveva serrato quelle del detective. Occhi chiusi e mani strette alle sue braccia come per assicurarsi di impedirgli una fuga. Non sapeva come reagire, non sapeva cosa fare. Ma ciò in fondo non importava dato che il suo corpo prese la decisione al posto suo. Incominciò così a ricambiare quel bacio all'inizio leggere trasformandolo pian pian in un qualcosa di più profondo. I suoi occhi continuavano a vagare per il viso dell'uomo. Voleva imprimere in se quell'immagine, desiderava non scomparisse col tempo. Sollevo anche lui le mani, lentamente senza fretta, seguendo l'avambraccio di William fino a far combaciare le loro mani, unendole e non separandole più.

In quel momento non sapeva come poter descrivere l'uomo di fronte a se. Non poteva definirlo con un misero "bello" o "affascinante", sarebbe stato un insulto se non un affronto alla reale-pura-e-semplice-verità. William lo rapiva e lo portava in un infinito mare di possibilità d'esistenza. William lo ammaliava con il suo semplice fatto d'essere ed esistere. William era questo ed altro, e lo veniva a capire forse solamente in questo momento.

Quando si staccarono, bisognosi d'ossigeno, i loro sguardi si incatenarono fra loro. Si fissavano e al contempo riacquistavano tutto il fiato perso. Stavano in silenzio eppure, col solo sguardo più di mille parole si dicevano.

-Calamite... dici?- disse William sorridendo all'uomo che gli stava di fronte. Fu allora che ebbe la conferma che sì, alla fine un filo di fiato qualche attimo prima gl'era uscito.

Fu lui questa volta a unire le loro labbra in un secondo, caldo, bacio.

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Chiedo scusa a chi nel capitolo scorso mi aveva chiesto di non assentarmi troppo, ecco.
Ho passato una settimana a pensare come iniziare il capitolo è poi come svilupparlo e stassere, TUTTO IN UN COLPO, ho avuto l'idea.
...Spero vi sia piaciuto.

Ciaoo e alla prossima
ʕ•ᴥ•ʔ <3

𝐔𝐧 𝐚𝐦𝐨𝐫𝐞 𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥 𝐜𝐫𝐢𝐦𝐢𝐧𝐞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora