Capitolo 2 | Le mura del sangue

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L'ultima volta che lo aveva picchiato gli aveva realmente fatto male. Jake sapeva di non potergli chiedere nulla, ma al tempo stesso era desideroso di farlo e comunque andare a quella gita rappresentava per lui un obbiettivo ambizioso: per un paio di giorni avrebbe lasciato suo padre in balìa della casa, non l'avrebbe sentito al telefono (e lui non se ne sarebbe interessato) e non avrebbe avuto i suoi occhi penetranti addosso per tutto il giorno. La missione era la seguente: avrebbe dovuto fargli firmare il permesso che gli avevano consigliato a scuola. Con quel piccolo foglietto di carta avrebbe avuto il pass per la libertà temporanea. Con le mani tremanti stropicciò un po' il bordo del foglietto che fino a poco prima aveva tenuto sulla scrivania e, nella penombra della sua camera da letto, rifletté al modo più semplice per chiedere al suo vecchio padre una cortesia, una delle poche, che per lui avrebbe significato molto. Suo padre aveva un brutto carattere e Jake era molto sincero con chi glielo chiedeva: fra i due non c'era un bel rapporto. Accuse, manipolazioni, frasi offensive rappresentavano la base della loro relazione. Solo il vagar con il pensiero a quell'argomento gli donava una morsa allo stomaco, che spesso ricacciava pensando al suo gruppo di amici e alle avventure vissute con grande allegria. Poi il rumore dela porta riempì il silenzio: fu proprio il suo arrivo a sconvolgerlo. L'uomo, un metro e ottanta per novanta chili di grasso traboccanti dalla canotta bianca sporcata dall'unto della cucina, spalancò la porta con un colpo secco dell'avambraccio.

«Sono le otto. Sto cucinando. Muoviti a venire a cena».

Jake si sollevò dalla propria sedia e si diresse mestamente in cucina, non prima di aver attraversato le scale che l'avrebbero condotto al piano di sotto. Arrivato in cucina, trovò suo padre già a tavola, a metà della sua porzione di quelli che sembravano in modo indistinto degli spaghetti al pomodoro. Divorava in pochi secondi qualsiasi cosa fosse commestibile e il suo modo di mangiare era scomposto, con una postura ricurva, gomiti larghi e rumori sordi delle posate che impattavano contro il piatto. Il sugo era così tendente al fucsia che Jake si domandò cosa ci avesse messo dentro, ma si accomodò e iniziò a mangiare. Un nutrirsi quasi biologico, che non aveva niente a che vedere con il mangiare di gusto. Jake Kyle aveva sedici anni e un grande bisogno di evadere. La sua vita aveva eretto delle sbarre creando una prigione dal momento stesso in cui era nato. Sua madre Dolores non era sopravissuta al parto e per tutta la vita lui non aveva fatto che intravedere il volto stanco, disarmato e corrucciato di suo padre Richie. Richie aveva cinquant'anni, ma ne dimostrava ottanta. Dopo la nascita di Jake si era ritrovato da solo a gestire un figlio che non aveva nemmeno davvero mai voluto. Richie aveva attraversato il processo che porta gli esseri umani ad incattivirsi, a trasformarsi nella versione peggiore di loro stessi. Il dolore è qualcosa da cui poter trarre insegnamento, ma Richie non l'aveva mai vista così e anziché cercare di trarre insegnamento, era cambiato. In peggio, si intende. Dall'età di cinque anni Jake sapeva che l'unico modo per risolvere le cose in casa sua era ricorrere al vecchio metodo degli schiaffi. Non gli piaceva ciò che era in tavola? La risolvo a suon di schiaffi. Una risposta non educata? Via con una scarica di schiaffi. Un brutto voto a scuola? Pestaggio. Jake non aveva mai davvero capito perché suo padre non riuscisse a dargli l'amore che altri genitori donavano senza remore ai propri figli, anche se l'anno prima gliel'aveva confessato in preda all'ennesima crisi di nervi. Lo stava picchiando, più duramente delle altre volte, dopo che Jake aveva tardato il rientro a casa di cinque minuti. E nel mentre le pesanti mani dell'uomo si infrangevano sulla tenera carne del ragazzo segnandola e provocando rossori, dolori e lividi violacei di forma scomposta, Jake aveva finalmente capito. «Hai ucciso tua madre» gli urlò talmente forte in volto da far sì che il dolore fisico si annullasse a favore di quello emotivo «e ora vuoi uccidere anche me? Non te lo permetterò! Io ti ammazzo! Io ti uccido!».

Probabilmente era stato quello il punto di svolta della sua vita. Aveva sempre percepito di non essere totalmente amato da suo padre. Lui si prendeva cura di lui, ma non dava l'impressione di essere davvero volenteroso nel farlo. Era più un compromesso, una sorta di impegno lavorativo, non un gesto dovuto al legame che avrebbero dovuto avere. Ma quelle parole...quelle parole avevano aperto in Jake una ferita, no, una voragine ampia e distesa all'interno della quale si erano riversati tutti i ricordi in una volta sola. E aveva pianto, eccome se aveva pianto. Un pianto disperato, duro, crudo che non si era annientato di fronte al tempo. Jake piangeva sempre. Piangeva di giorno, mentre indossava le sue cuffiette e il mondo della musica lo trasportava via come foglie in un fiume; piangeva di notte, con il volto infossato fra le mani e le dita che spiaccicavano sulla fronte i ciuffi di capelli scuri sudati; piangeva da solo, ma mai in compagnia per paura di essere giudicato. Jake piangeva dentro e fuori, ma faceva ciò che suo padre non era mai stato capace di fare.

Andava avanti.

Sempre e nonostante tutto, a dispetto di chi avrebbe voluto vederlo crollare. A sedici anni, Jake conosceva molte più cose sulla vita del suo vecchio e acido padre, ma non osava nemmeno pensarlo fino in fondo, perché semplicemente non riteneva di essere una persona di valore. E si sa, se non si crede in sé stessi, è il primo passo per auto sabotarsi.

Dopo aver divorato la cena, il padre di Jake si diresse in soggiorno con lo scopo di stravaccare sul sofà e guardare i dieci notiziari della sera. Stava annuendo dinanzi alla luce bluastra dello schermo della tv come se intrattenesse nella sua mente un discorso che solo lui poteva ascoltare, quando Jake gli si presentò di fronte, piccolo come una formica dinanzi ad un grattacielo. Gli porse il foglietto che per giorni aveva tenuto fra le mani e suo padre iniziò ad esaminarlo.

«Cos'è?» gli chiese.

«Una...un permesso. Vedi, la scuola ha pianificato di portarci a New York per visitare...la città. Non l'ho mai vista...New York, intendo. E...sai, mi serve la tua firma per...».

«Quanto?».

«Eh?».

«Quanto costa?».

Jake sapeva che suo padre si sarebbe arrabbiato, ma decise di dirgli la verità.

«Solo venti dollari».

Suo padre sgranò gli occhi e sollevò le sopracciglia simili a due enormi spazzoloni scuri. «Solo venti dollari» ripeté con tono cantilenante. «Certo che per te sono solo venti dollari, tu non fai un cazzo, Jake. Non lavori. A malapena vai in quello schifo di scuola per...perché ci vai? Per rovinarmi la vita come hai già fatto, evidentemente».

Per l'ennesima volta, Jake non seppe cosa rispondere.

«Vai in camera tua, fenomeno» disse Richie e dopo aver appallottolato il permesso lo gettò alle spalle del divano.

«Ma papà, io voglio solo...».

«Vai in camera!» urlò Richie.

«Non possiamo parlarne?».

Richie pigiò il bottone in alto a sinistra del telecomando. La tv si spense. Voleva dire solo una cosa. In breve tempo sarebbe finita male. Richie si sollevò dal divano e sovrastò Jake con la sua stazza. Il ragazzo si fece ancora più piccolo.

«Vai in camera tua, Jake. O ti ammazzo».

«Volevo solo...».

Jake fu colpito da un violento schiaffo sul labbro inferiore. A fare ancora più male furono gli anelli di suo padre incastrati sapientemente fra le dita gonfie. Il metallo colpì in pieno le piccole e sottili labbra del ragazzo tagliandole come striscioline di carta. Jake si ritrovò al suolo, per l'ennesima volta, con l'enorme figura di suo padre eretta dinanzi a lui. Un calcio nell'addome e poi un altro. Poi la scarpa di suo padre gli pestò addirittura una mano. Jake urlò, un grido forte e disperato che venne accompagnato da lacrime che iniziarono a percorrerne le guance rosee da ragazzo e si mescolarono con il sangue della bocca. Suo padre lo sollevò da terra e lo sbatté contro il muro.

«Cosa fai, eh?» gli urlò in faccia.

Jake piagnucolava e non aveva la forza di rispondere. Le budella gli si erano attorcigliate provocandogli un dolore intenso e forte, sembrava che un incendio divampasse dentro di lui. Ma suo padre non aveva finito. Lo scosse ancora, fino a farlo smettere di piangere per la paura. Quest'ultima si era impossessata di Jake: lo paralizzava.

«Sei una femminuccia? Stai piangendo?» Richie iniziò a ridere. Una risata folle, che anticipò l'ennesimo attacco. «Solo le femminucce piangono, Jake. Tu sei un uomo, vero? Cioè, dovresti esserlo. Solo che mio figlio è una femminuccia senza dignità, una piccola femminuccia che piange senza avere mai una soluzione. Non andrai a quella gita. Non ci andrai non solo per i venti dollari, ma perché lo dico io. E se lo dico io è legge, Jake».

Lo mollò facendolo cadere a terra. Jake si rialzò di istinto e corse in camera sua, chiedendosi se quella follia, se quel dolore prima o poi avrebbe lasciato spazio alla sua vera essenza

L'uomo nello specchioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora