IX

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(Moraax)

Tornando a casa pensai se fosse stato meglio usare la forza con Moraax. Era un Demone, un rifiuto persino per quelli della sua razza ed era stato abbandonato come un bastardo, a nessuno importava di lui e l'Esercito lo aveva dimenticato. Se avessi trovato un modo per torturarlo mi avrebbe svelato i segreti del Nido, in modo da salvare la mia casa.

Io e lui però non eravamo molto diversi; entrambi eravamo stati abbandonati da qualcuno, delusi, con un enorme peso da portare. Io non ero un mostro e non volevo esserlo. Fargli del male avrebbe dimostrato che fossi come un soldato o un cavaliere che pensava solo a se stesso. Volevo essere migliore, per questo non mi voltai nemmeno una volta e tornai dritta sui miei passi, domandandomi cosa volessero significare le sue parole.

Era ovvio che non sapessi come salvare mia sorella, altrimenti non avrei mai chiesto aiuto alla strega delle selve, tanto meno ad un Demone. Avevo dimenticato qualcosa di quella notte e tentai di ricordare: Celestia era morta dopo i miei genitori e si era trasformata in punto di morte. Io avevo chiamato aiuto e lei aveva risposto. Avevo accidentalmente dato il via ad una creazione fuori da ogni legge naturale e non riuscivo a controllarla.

Cel aveva i suoi pensieri, le sue emozioni e la sua personalità ed era del tutto diversa dalla vera sorella che avevo avuto in vita. Mia sorella non avrebbe mai fatto del male a nessuno e mio padre ci aveva insegnato unicamente a difenderci, non ad attaccare. Mandando via quell'essere avrei ucciso di nuovo mia sorella e forse, in fondo, aveva ragione Moraax, non ero pronta.

Andai a corte con i miei pensieri e tutti vertevano sul fatto che avrei vissuto bellissime avventure interessanti, sarei diventata amica dei più valorosi cavalieri e sarei stata con il re. La verità fu che corte era noiosa e non era affatto il mio ambiente. Calanthia mi insegnò le regole di buona etichetta e per i primi minuti parve persino impaziente di essere ancora un'insegnante, poi, quando capì che fossi tutt'altro che brava ed educata, si scocciò. Mi faceva leggere poesie – e dannazione pure al tono, perché doveva essere alto, ma non troppo da fare fastidio, veloce, ma non troppo da farmi aggrovigliare la lingua, e ben scandito, cosicché potessero sentirmi fin da lontano. Era tutto un "così ma non troppo" e io ero quel "troppo".

Stavo leggendo l'ennesimo verso di una noiosissima poesia in versi quando Calanthia, la quale passeggiava su e giù per la libreria, scosse il capo.

«No, hai sbagliato. Da capo» ingiunse. «Mento alto e mani giunte.»

Me le pulii. Erano sudate. «Cosa c'entra questo con il proteggere il re?» replicai.

«Nulla.»

«Allora è proprio inutile» dissi sottovoce. «Mi ficcherei una spada in gola.»

"Auuuun! Nico non deve dire cose brutte!" strillò Cel fuori di sé.

«Ti ho sentita. Da capo.»

Insieme ad un altro cavaliere di cui non sapevo il nome tentò di farmi imparare a memoria la mappa del regno, ogni suo nome, i fiumi, le montagne, le rive e anche le miniere. Io passavo il mio tempo a disegnare jergen sul quaderno che mi aveva dato. Canto fu un disastro perché ero stonata e, quando per sbaglio lanciai del mangime sul mantello di Rines e il suo falco iniziò a prenderlo di mira, Calanthia osò dirmi che la mia risata fosse troppo sguaiata. Non potevo mangiare troppa carne, o le mie spalle sarebbero diventate ancora più larghe, niente sveglia tardi o hobby violenti.

Calanthia disse che "non erano cose da signora".

E io volevo davvero imparare ad essere una brava dama, far vedere al re Aurelion che fossi degna di stare a corte e di essere al suo fianco, tuttavia quelle cose erano fuori dalla mia portata. Io ero brava ad imbrogliare i nani, a combattere e a raccontare barzellette. Secondo Calanthia il regno della Luce aveva due problemi: la guerra, e ci avrebbe pensato Aurelion, e me, ed ero toccata a lei. Le dame dovevano essere perfette, argute, caute, belle, intelligenti e seducenti. Io ero ancora una ragazzina.

The king's birdDove le storie prendono vita. Scoprilo ora