3 - Henri Laborit

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Quella sera piove, grandi gocce scure bagnano i vetri delle finestre – ora non più limpide – fino a rendere impossibile vedere cosa ci sia al di là. Infatti Simone non scorge il mandarino che, fradicio, giace in mezzo al giardino, così come non riesce nemmeno ad accorgersi del figlio che, lentamente, rincasa con il motorino e il borsone di calcio sulle spalle – ha iniziato un giorno addietro e, già, si trova bene in mezzo ai nuovi compagni di squadra.

Si è rintanato in quella che, per quasi vent'anni, è stata camera sua. Una fedele compagna che ha accolto sorrisi e lacrime che, con il tempo, l'hanno fatto crescere e maturare, portandolo a comprendere per cosa valesse la pena disperarsi e, contrariamente, chi non avesse nessun ruolo per soggiogare la sua serenità.

È rimasta invariata, totalmente, tant'è che il televisore occupa ancora il medesimo posto, così come la vecchia chitarra e la scatola dei ricordi che, polverosa, riempie tutto il secondo ripiano della mensola in legno lucido. Ci passa la mano sopra, forse per ricordarne il colore originale, magari per testare quanto fegato avesse per estrarla da lì e aprirla, lasciandone fuoriuscire tutto quel bagaglio di eventi che, gli piacesse o meno, andavano a formare il suo nucleo vitale fino a quell'esatto istante.

La sensazione peggiore arriva al suo stomaco quando si distende su quel letto che, tranne per le coperte, non è cambiato di una virgola – sembra mantenere ancora quel peso incolmabile delle lacrime che ha versato, e Jacopo minuziosamente raccolto, per quell'amore impossibile che, tanto, gli ha sconquassato il petto. E gli pare di tornare indietro nel tempo, cosa che riuscirebbe a fare se solo chiudesse gli occhi, sentendosi nuovamente un totale fallimento, con un cuore così peso che nemmeno si meraviglierebbe troppo se capitolasse seduta stante.

La fitta pioggia, che culla i suoi pensieri tristi, non gli da nemmeno l'agio di vedere i rimasugli di quel vecchio capanno che, in un modo tutto suo, è riuscito a rendere indimenticabili dei momenti della sua vita quotidiana – e vorrebbe dire che il merito non ricade su una persona, eppure non è così, perché mentirebbe a sé stesso, rendendo in bianco e nero quello che, allora, era stato più colorato di un arcobaleno dirompente in un cielo tempestoso.

Come se l'universo fosse in simbiosi con la sua mente, tra le nubi risuona un boato sordo, provocato da un lampo improvviso, quindi la pioggia aumenta e, più si guarda attorno, più Simone scorge un'assenza totale di colore. Adesso è tutto bianco e nero: nessuno può riportare altre tonalità nella sua vita, almeno non finché il territorio tra lui e Leonardo sarà tornato quantomeno neutrale e, in secondo luogo, il suo povero cuore avrà fatto i conti con la consapevolezza di non esser stato creato affine a quello di qualcun altro per essere scelto, rispettato e protetto. Per essere amato.

L'uscio dell'ingresso si apre e, conseguentemente, richiude, per lasciar poi spazio ad una serie di colpi secchi sul pavimento, provocati dallo strusciare delle scarpe - zuppe – e dal borsone fatto malamente cadere. La suoneria di Leonardo rompe il silenzio tombale e «aridaje, so passati giorni 'n cui non me chiama mai e oggi già alla terza chiamata sta. Che se scollasse.» borbotta ad alta voce. «Ciao –si papà, tutto ok, già ce siamo sentiti prima.» risponde e, falsamente, fa credere a Daniele, l'altro suo genitore, di esser felice nel sentirlo.

Al che Simone, rinvigorito di punto in bianco, si tira a sedere e drizza le orecchie per sentire se, effettivamente, suo figlio continuasse ad avere un rapporto con suo padre – come sarebbe stato giusto – o se, conoscendolo, si stava limitando a dargli il buongiorno e la buonanotte.

«No, no papà. Se non ce vuole parlà con te avrà le ragioni sue.» alza leggermente il tono. «Certo ch'è incazzato –pure io, eh, lo sto facendo per pà di essere gentile, non posso farlo star male anch'io.» colpito e affondato, Leonardo aveva fatto bingo - totalmente – facendo accusare la botta anche a Simone.

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