Capitolo uno - parte 1

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«Quindi Bianconeve si è preso la tua stanza?»

«No, per fortuna. Si è trasferito da mio fratello. E smettila di chiamarlo così!»

Sveva ghigna attraverso lo schermo, gli occhi verdi accesi di divertimento. I lunghi capelli neri sono sciolti sulle spalle, segno che è il suo giorno libero dal lavoro. In negozio è costretta dai piani alti a tenerli raccolti e in ordine. «Perché? Non sei stata tu a dire, testuali parole, che ha la pelle chiara come porcellana e le labbra rosse come petali di fiori? Era molto poetico, Nana. Non è che ti piace?»

Sgrano gli occhi per l'affronto. «Ma scherzi?» sbotto. Accarezzo con furia il pelo bianco e nero di Capitan Uncino, quello vero stavolta, che sonnecchia sulle mie gambe incrociate. Lui solleva lo sguardo verso di me, infastidito. «Ha l'età di mio fratello, Svevi. Prendono ancora il latte dal biberon. Il lavoro da babysitter non fa per me.»

Sveva rotea gli occhi. La connessione decide proprio in questo momento di fare le bizze, così la mia amica viene immortalata nel pieno della sua esasperazione, con le iridi quasi del tutto nascoste dalla palpebra superiore. Le dona. Faccio uno screenshot da trasformare in uno sticker. Glielo manderò più tardi.

La connessione riprende a funzionare e l'immagine di Sveva torna in movimento. «Hanno diciotto anni, mica tre! È maggiorenne. Non ti arresteranno se lo trovi attraente.» Scuote la testa, stizzita, e la sua frangia si scompiglia.

«Maggiorenne con l'età mentale di un bebè. Te l'ho detto che Adriano si mette a piangere davanti alla PlayStation quando perde?»

«Lui non è Adriano», mi fa notare Sveva con aria saccente. La sua coinquilina brasiliana, Heloisa, passa sullo sfondo della sua cucina londinese con una borsetta microscopica appesa all'avambraccio. Sventola la mano nella mia direzione senza guardarmi prima di aprire la porta d'ingresso e andare via. È abituata alla continue videochiamate tra me e Sveva. I primi mesi dopo il suo trasloco parlava più con me che con la sua famiglia.

«Ma sono amici», concludo. «Non possono essere così diversi.»

«Almeno farai pratica per quando sarà ora di avere un pargoletto tutto tuo.» Sorride, maliziosa. Due profonde fossette le compaiono sulle guance.

«Non prendermi in giro, Svevi, va tutto una merda!» piagnucolo. Quanto vorrei che la mia migliore amica fosse qui invece che a Londra! «Sono sola come un cane e devo dividere il bagno con due ragazzi luridi. Non potrebbe andare peggio di così.»

«Puzzano?» domanda lei, che come al solito non ha colto il punto saliente del mio sfogo.

Tiro su col naso. «Mio fratello sì. Federico boh, probabilmente anche lui...»

«... dato che sono amici», conclude Sveva al mio posto, roteando di nuovo gli occhi. «Sai, la mia ex coinquilina asiatica diceva che noi occidentali puzziamo. È proprio una questione genetica.» Fa un secondo di pausa. «Non era molto gentile. È maleducato dire alle persone che puzzano.»

«Tu lo fai sempre.»

«Non ho mai detto di essere educata.»

Sveva e io eravamo compagne di banco alle scuole superiori. Abbiamo frequentato insieme il liceo linguistico, anche se per scopi diversi: io volevo tradurre romanzi, lei voleva entrare nelle alte gerarchie delle boutique di lusso. Dopo il diploma si è trasferita all'estero per inseguire il suo sogno, e adesso lavora da Mulberry nella capitale inglese.

Una delle due sta coronando il suo sogno, e non sono io. Ma il nostro rapporto va al di là dell'invidia. Non esiste qualcuno a cui auguro la felicità più che a Sveva. Non posso negare però di sentirmi indietro, talvolta, come se mi avesse seminata su quel percorso che sognavamo insieme.

Prima che il tempo scorraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora