Capitolo due - parte 1

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Il giorno successivo mi alzo presto per andare da Mafalda. Mentre mi trascino con insofferenza dalla mia camera da letto alla cucina, sento il rumore della macchinetta del caffè in azione. 

Lancio un'occhiata all'orologio: sono appena le sette. Il sole oltrepassa sfacciato le tende e disegna dei riflessi aranciati sulle mattonelle chiare del pavimento.

Federico è in piedi davanti all'isola caffè della cucina. Mi dà le spalle, offrendomi la visuale della sua nuca nuda. Indossa una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloni di tuta poco sopra il ginocchio. Non appena avverte la mia presenza, si volta.

«Buongiorno», dice con la voce arrochita dalle prime ore del mattino.

«Mmm», rispondo, laconica. Non è colpa mia. Non riesco ad articolare le parole se non sono passati almeno dieci minuti da quando ho aperto gli occhi. Dieci minuti e una generosa dose di caffeina. Mi sono sforzata di emettere un verso solo perché Federico è praticamente uno sconosciuto.

«Ti faccio un caffè?» Indica la macchinetta ancora accesa.

«Mmm.»

Lui non fa una piega. Armeggia con la leva dell'apparecchio per rimuovere la cialda consumata e inserirne una nuova, poi preme il pulsante di accensione e il liquido bruno riempie lentamente la tazzina di vetro.

Quando me la porge, la sorseggio con gratitudine. La caffeina si fa strada fino al mio cervello insieme al sapore amaro della bevanda. «Grazie», riesco finalmente a dire. Passo la punta della lingua sulle labbra secche per pulire le ultime tracce di caffè.

Federico abbassa le palpebre e sorride. Le ombre disegnate dalle ciglia gli fanno risaltare gli zigomi.

«Come mai sei già sveglio?» domando, schiarendomi la voce. Mio fratello non si alza mai dal letto prima dell'una del pomeriggio. Di solito fa colazione e pranzo insieme. Si può dire che sia un estimatore del brunch da prima che andasse di moda.

«Vado a trovare i miei nonni.» Scosta la sedia di fronte alla mia e si accomoda. «I nonni paterni», specifica, anche se non ce n'è bisogno. Mi scocca un'occhiata mentre prende un sorso del suo caffè, i gomiti posati con indolenza sulla superficie di legno e gli occhi scuri che mi scrutano al di sopra della tazzina.

«Come mai non stai da loro?» Poi mi accorgo che può suonare come un'accusa e aggiungo: «Sono solo curiosa. Non è nelle mie intenzioni cacciarti.» Spero suoni come una battuta.

«Vivono in casa di riposo. Possono ricevere visite, ma non è permesso che ospitino qualcuno.» Il suo sguardo scivola per un istante dai miei occhi alla maglietta del pigiama, ma correggono subito il tiro. Sulle sue guance chiare compare un rossore sospetto.

Il mio battito accelera senza alcuna ragione. «Oh. Capisco.» Addento un biscotto. Per qualche secondo il solo rumore è quello dei nostri denti che masticano.

In lontananza, forse dalla casa di un vicino, si sente il rumore di un trapano.

«Comunque mi sveglio sempre presto», continua lui al di sopra del ronzio. «Non riesco a dormire fino a tardi. E poi mi fa comodo, devo fare un ripasso di coreano prima di iniziare l'università.»

«Non lo parli già bene?»

«Sì. Non è una lingua difficile in assoluto, ma mi capita di trascrivere male alcune parole. Inoltre devo studiare il gergo tecnico.»

Lo guardo con ammirazione. «Cosa studierai?»

«Ingegneria.» Mi sorride orgoglioso. «Sono entrato all'università nazionale di Seul. Però sono molto esigenti.»

Non conosco l'università di cui parla, ma da come lo dice sembra una cosa grossa. «Complimenti. Un'università prestigiosa in una lingua che non è neanche la tua.»

Prima che il tempo scorraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora