XVIII

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*Grace*

Le mie gambe si muovevano da sole. Il mio cervello continuava a pensare a ciò che era appena accaduto. La mia pelle sentiva ancora il tocco scottante di quell'uomo. Adrenalina, ero sicura fosse quella a far in modo che potessi ancora respirare. Ero solo andata in cucina per bere un goccio d'acqua quando questi uomini mi avevano accerchiata. Per fortuna Jace arrivò quasi subito, ma non abbastanza in tempo per evitarmi quel supplizio.
Ero quasi sicura che adesso Noah mi avrebbe spedita in un bordello. Nessuno sarebbe riuscito a salvarmi questa volta. Avevo visto la sua faccia, era arrabbiato come non mai. Sarei stata punita, anche se avevo subito io ancora una volta.
Entrai in fretta e furia nel salotto chiudendomi velocemente la porta alle mie spalle. Lanciai via i tacchi che ormai erano diventati inutili ed insopportabili. Iniziava a mancarmi l'aria lì dentro, in tutta la casa mi mancava. Non riuscivo a smettere di tremare, l'ansia ormai aveva invaso completamente il mio corpo. Quando pensavo che la mancanza di aria nei polmoni mi avrebbe portata ad un veloce svenimento, vidi forse una possibile via di fuga. Un riparo.
A piedi scalzi nella stanza appena illuminata dai lampioni del giardino, facevano entrare un po' di luce dalle enormi vetrate, mi avvicinai all'enorme pianoforte a coda.
Lo sfiorai con cautela. Alzai la parte che copriva i tasti con facilità, poi mi posizionai sul divanetto. Dapprima sfiorai quasi timidamente i tasti con una mano, non suonavo da un tempo ormai dimenticato. Ma suonare per me era come andare in bicicletta, una volta imparato non si dimentica più.
Volevo sparire per un momento, uno solo, da quel mondo orribile in cui continuavano a trascinarmi, in cui forse io stessa mi costringevo a restare, incapace di reagire e liberarmi.
E senza accorgermene stavo già suonando. Mi facevo trasportare dal ricordo di mia madre, seduta in cucina, spostava l'archetto su quelle corde perdendosi nel suo mondo. La sua canzone preferita, la sua melodia. Primavera di Ludovico Einaudi. Un insieme perfetto di piano e archi. Per un istante che parve eterno nel silenzio di quella stanza c'ero solo io e la musica. Qualche lacrima mi cadde dagli occhi direttamente sui tasti, ma non mi fermai, faceva male ma anche così bene.
Suonai il tempo necessario a calmare il mio respiro e il battito del mio cuore.
Poi mi iniziai a riprendere e tornai nel mondo reale, in quel mondo dove adesso mi sentivo osservata da occhi in fiamme.
Non mi voltai, staccai piano le mani dal pianoforte, ma restai immobile in quella posizione. Non potevo scappare dal mio destino, non ero io a decidere per me, urlare, piangere non sarebbe servito a nulla più ormai.
Mi aspettavo urla, schiaffi, l'avevo visto sparare ad un uomo qualche minuto prima, magari avrebbe freddato anche me così da avere un problema in meno tra i piedi. Rimase in silenzio, vicino allo sgabello del pianoforte. Mi fissava, non lo vedevo ma sentivo il suo sguardo addosso, mentre tenevo il mio fisso sulle mie mani appoggiate alle cosce.
Dopo lunghi minuti di silenzio, decisi di parlare.
"Scusami." Dissi, per poi mandar giù il groppo che mi si stava riformando in gola.
Ancora niente. Silenzio.
Poi fece l'inaspettato. Si mosse lentamente e venne a sedersi vicino a me sul divanetto. Rimasi immobile. Lui ancora in silenzio.
Spostò un dito su qualche tasto, simulando una suonata, ma senza schiacciare effettivamente.
"Ti avevo chiesto di restare con i ragazzi.." sospirò. Sembrava essere esausto di me.
"Lo so, scusami." Continuai io.
Sospirò pesantemente un'altra volta.
"Suona ancora." Questa richiesta mi sorprese, quale era il tranello?
"C..come?" Dissi, magari non avevo capito bene io.
"Grace per favore, non farmi ripetere..." tutto ciò era strano, ma non aspettai ulteriormente.
Ricominciai con la sinfonia di prima. La vicinanza di lui non mi permetteva di raggiungere facilmente alcuni tasti. Se ne accorse, ma non si mosse.
Rimase fermo, lasciando fossi io a sfiorarlo di tanto in tanto casualmente.
"Suoni davvero bene Grace." Disse qualche minuto dopo la fine della mia "esibizione".
"Grazie." Risposi semplicemente.
"Mia madre era una violoncellista, questa era la sua sinfonia preferita." Lo dissi tutto d'un fiato, quasi soprappensiero. Non so perché, volevo che lui sapesse questa cosa, questa cosa così importante di me.
"Ti ha insegnato lei a suonare così quindi?" Mi disse toccando qualche tasto del piano, io iniziai a tormentarmi le dita.
"No...non ha fatto in tempo." Risposi con un sorriso amaro sulle labbra. Lui non sapeva. In realtà nessuno sapeva la verità qua dentro.
"Era troppo occupata con il country club?!" Disse di colpo lui con un ghigno sul volto. A quel punto mi decisi ad alzare lo sguardo verso di lui. Noah mi stava già guardando da sopra la sua spalla, aspettando una mia risposta.
"Aurora e Sam mi hanno adottata quando avevo circa 14 anni. Mia mamma non ha fatto in tempo ad insegnarmi a suonare perché è morta quando ne avevo cinque." Dissi tutto d'un fiato, poi tornai a guardare i tasti bianchi e neri.
Il silenzio che scese dopo nella stanza fu assordante. Lo sentivo aprire e chiudere la bocca alla ricerca di parole da usare.
"Io...pensavo...non lo sapevo Grace."
"Lo so..." risposi. Potevo dirlo subito e smetterla di subirmi i suoi pregiudizi, ma non l'avevo fatto.
Spostavo le dita sui tasti senza suonare una nota. Eravamo ancora seduti lì, senza guardarci e senza parlare. Spostò anche lui la mano sui tasti. Pian piano seguii i movimenti che le sue dita facevano sui piccoli pezzi rettangolari bianchi, avvicinandosi sempre di più alla mia mano. Ci sfiorammo, quasi in modo impercettibile. Avevo le labbra leggermente schiuse, il respiro pesante. Lui si era leggermente voltato a guardarmi. Il silenzio non tentennava a scomparire. Nessuno dei due disse nulla. Io non stavo più capendo nulla. La sua vicinanza per la prima volta da più di un mese non mi faceva male. Ero a disagio, ma era diverso dal solito. Aveva sparato ad un uomo senza pensarci due volte, per salvare me.
"Grace mi dispiace per prima...quell'uomo, Dio vorrei così tanto ucciderlo." Disse a spezzare il silenzio.
"È colpa mia, mi avevi detto di non far danni e io...io, mi sono messa io nei guai." Ero stata io ad allontanarmi da sola, lui me l'aveva raccomandato di non fare sciocchezze.
Si girò velocemente verso di me, mi sollevò il mento con due dita ed io lo alzai nella sua direzione. Quel contatto fu deciso, così deciso che non mi spaventai, lo lascia fare.
"Non darti la colpa per tutto. Mi dispiace non essere arrivato prima. Vedere le sue mani su di te, Dio, gli avrei voluto fare un buco in testa." Disse sincero. Tolse le dita dal mio mento e, pin piano, avvicinandosi al mio viso, appoggiò la sua fronte alla mia. Probabilmente ero ancora sotto shock, perché neanche a questo suo gesto mi venne da ritirarmi. Rimasi semplicemente ferma, con la sua fronte appoggiata alla mia e le sue mani che sfioravano le mie. I suoi sospiri lenti e caldi mi sfioravano le labbra. Esattamente non sapevo cosa stessi provando in quell'esatto momento: sicuramente la paura di lui non era svanita. Eppure io gli avevo disubbidito, avevo messo a rischio i suoi uomini e lui stesso, in quella cucina erano in minoranza. La sua preoccupazione invece sembrava essere che un altro uomo mi aveva toccata contro la mia volontà, cosa che anche lui aveva fatto in precedenza. Stavo pensando a tutto e a niente, alla sensazione di sicurezza e conforto che avevo provato nel nascondermi dietro di lui appena liberata. La prigionia mi stava sicuramente dando alla testa.
Mi sfiorò il naso con il suo, i nostri occhi si incastrarono alla perfezione, iniziando un ballo privato.

Be like Snow: beautiful but cold.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora