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Il barista si è adattato alla vita da recluso, ostaggio dei suoi perché. Gli hanno dato una stanza, essenziale ma pulita, e un omaggio in alcolici che non disdegna. L'intera palazzina sotto i suoi piedi è stregata dall'atmosfera asfissiante che si è diffusa. La piazzetta sottostante è deserta. Ma non tutto il resto dei bassifondi.
Così si chiama: i bassifondi. Il vecchio nome non l'ha mai saputo. L'ultima fermata dell'ultima linea, la più derelitta, dove il treno della metro sembra vada a morire e sei nei bassifondi. Un organo della grande città malato di cancro: prima i malati, poi gli appestati, poi i poveri, i bordelli, la droga, le armi, alla fine solo il degrado. Non c'è commercio, non c'è attività e non c'è giustizia nei bassifondi. Solo, adesso, luce bianca. Questo bianco candido, immacolato, illumina le pietre, le terrazze, le finestre rendendoli un unico, grande colore. Un giorno di riposo per il malato bassifondi. Una boccata di fresca, bianca aria asettica. Il barista annusa piano, a piccole aspirazioni: sente un lieve, sottile, diffuso odore di sangue.

Quando ormai le scorte di alcolici erano finite da un bel pezzo e il barista recalcitrava per la smania di darsela a gambe, ricevette la prima visita. Frugava in tutte le tasche alla ricerca di una fottuta, ultima, sigaretta, quando sentì la porta aprirsi. L'astinenza da nicotina stava per fargli sputare un insulto per ricacciare indietro l'ospite, ma tace.
Ha davanti la persona più sgradita, il ricordo più dolente.
Questo ricordo cresciuto, coi capelli lunghi e tinti di biondo, lo fissa con quelli che sono gli occhi più ardenti. Il barista scatta, qualche impulso nervoso lo scuote, gli fa tremare le mani, scivolare il sudore freddo lungo il collo, chiudere nervosamente gli occhi.
Si aspetta una pallottola in fronte, questa è la verità. Nei bassifondi, se mi meni ti meno. Se mi accoltelli ti accoltello. Se mi spezzi il cuore ti ammazzo.
Il barista si avvicina al letto, si siede lentamente per non allarmare il suo ospite. Siede gobbo, il viso nascosto tra le mani. Non ha il coraggio di rialzarlo.
L'ospite emette un verso inorridito. Il barista capisce il suo disgusto, ma non si offende. Attende il momento della sua reazione, che può avere mille forme: pugnale, pistola, coccio di vetro, dipende dall'ultimo oggetto che Damn'it si è trovato tra le mani prima di lasciare la propria stanza e raggiungerlo in questa. Anche le sue mani nude sono pericolose. E siccome Damn'it non fuma, non può neanche buttarla lì di farsi due tiri. Al barista viene da ridere. E infatti sorride.
L'ospite, inamidato, pietrificato dalle circostanze, sbotta:
«Non ridere» e aggiunge «non mi sembra il caso».
Il barista resta dov'è, mantiene quella smorfia ironica, ma si volta, guarda fuori dalla finestra.
«Vuoi un abbraccio, allora?»
Ѐ fatta. Il barista si è pestato i piedi, da solo, apposta. Damn'it gli si lancia addosso, ha la meglio sul suo corpo mingherlino fuori allenamento e gli fa più male che può. Si libera, assieme ai suoi pugni piovono anche i suoi pensieri, tutti sul barista. Il barista se li prende e li assorbe. Tutto entra dentro di lui e si trasforma in sangue. Sangue dal naso, sangue dalla bocca, sangue intrappolato sotto la pelle, sangue che scivola tra le costole. In pochi minuti, in cima a quel palazzo che ora trema e gli rimbomba nelle orecchie, il barista si fa massacrare con piacere fino a spegnere, come in un posacenere, quei pochi pensieri che si rigirava nella mente. Sviene, sente dolore, si ridesta, sviene ancora. Dentro di lui una voce dice mio dio, da quanto tempo non mi pestavano così...!

La Guerra BiancaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora