Fuori dalla gabbia da criceto dove il barista corre la ruota dei suoi pensieri, voci senza volto bisbigliano che qualcuno è tornato. Il nome sfugge, alcuni provano a sillabarlo ma si trattengono, soffocando come pesci fuor d'acqua. Quando cazzo se ne andrà questa foschia irrespirabile? Nessuno pensa di fare la cosa più ovvia: chiedere al Doc.
Il Doc, dal canto suo, percorre un sentiero immaginario che passa virtualmente sopra il corpo del barista. Se lo sente sotto i piedi come una merda che non porta fortuna. E, pulendosi più volte gli occhiali, ripete:
«Vedo meglio, cazzo. Vedo davvero meglio».
Dopo cento riflessioni spalanca la porta, che emette un boato come avesse stappato un'enorme bottiglia e c'è chi dice ecco adesso va e capiamo perché cazzo da quando è arrivato quel tipo quei tre sembrano matti e chi invece comincia a sentire, con la sua intelligenza animale, che è il caso di ritirarsi.
Ma il Doc non esce, ci ha provato, ma non è mai andato oltre il ballatoio. Al massimo esce, si appoggia, accende una sigaretta, si gratta la fronte, sputa, cincischia. Ma è sempre tornato indietro. La mora lo osserva, con la sua propensione allo studio del carattere umano, senza nessuna curiosità o gioia, solo un leggero malessere. Fissa la porta come un serpente incazzato, non la perde di vista, ma non si è mai alzata quando il Doc è uscito. Solo, piega un angolo della bocca dipinta di rosso e aggrotta le belle sopracciglia. Eh sì, quei tre sono messi male. Non sembra un gran che, a quelle voci senza volto, essere guidati da boss così pazzi.
Fuori, nei bassifondi, si assiste a gesti insoliti.
Il bianco candore pesa su ogni luogo, conquista ogni anfratto di cervello e distoglie l'attenzione di chiunque portando tutti, insieme, alla formulazione della stessa domanda. Chi quei giorni li aveva vissuti, scopre di avere ancora la facoltà di piangere. Quelli che ne avevano solo sentito parlare si sentono invadere, sollevare, riempire fino agli occhi di una speranza mai provata e si commuovono senza sapere perché. I fumatori accendono una sigaretta dopo l'altra, gli alcolisti scolano una bottiglia dopo l'altra devo stordirmi, devo dimenticare, devo ignorare questa disgraziata speranza che mi sta facendo alzare la testa, uscire del coma, credere che ne usciremo fuori e non pensare, cazzo! non pensare che tornerà, che sia proprio lui, che torneremo a quei giorni, riavrò il mio cuore, le mie armi, i miei momenti di gloria. Quella odiosa, maledetta, infame voglia di vivere che ci ha fregati tutti una volta e che ancora ci tiene fissi qui.
Si sente un grido: qualcuno si è buttato dalla finestra e si è spaccato il cranio sulla strada. Non pochi pensano esatto, dovevamo finire così, tutti, allora, quando il sogno si è infranto e siamo tornati a essere quello che eravamo prima: spettri, masse senza nome, senza un perché. Ma soprattutto senza dignità, senza destino, senza ruoli. Dei vuoti sulle gambe, consumatori di resistenza passiva, fatti di droga, alcol e stordimento.
Come se ci fosse il vero martirio di cristo affisso su quel palazzo istintivamente tutti vi rivolgono gli occhi, che attraversano muri e distanze, visualizzano quella persona, si fissano su quel pensiero e lo pregano. Il barista, come un punto ricettore di onde, trema scosso da tutta quella speranza.
Sorge un sole spaventoso, sui bassifondi. I suoi raggi bianchi attraversano in obliquo lo spazio, si infilano nella trama di cotone delle tende, tra le palpebre chiuse e si disperdono come pulviscolo nell'aere. Risultato: sei sveglio ma non capisci perché, non capisci nemmeno se lo sei davvero. Ti alzi e guardi il muro a brutto muso per qualche minuto.
Oggi il Doc è stato svegliato così. Ma lui ha preso di petto la porta, ha inforcato il primo gradino, è sceso al piano di sotto ed è entrato nella stanza del barista.
La notizia si diffonde, la mora esce dal letto e dalla camera e batte forte il piede sul pavimento, in un gesto di rabbia leonina.
«Damn'it!» urla. E scambia un'occhiata con il ragazzo biondo che si sporge dal pianerottolo di sotto. I due tacciono e rimangono lì, gli occhi sulla porta dell'ospite, un sottile brusio di sottofondo che commenta e si dispera e bestemmia e infine tace. Non esce un suono, nemmeno un cazzo di rumore che so di passi, botte, urla, pianti: niente di niente. I due sono scossi da un leggero tremore nervoso: la mora lo disperde dondolando il piede sul legno, il ragazzo è preda di un tic che gli fa scattare il viso a lato. Intorno a loro si genera la paura. La mora solleva lo sguardo, osserva il cielo sopra il palazzo. Attraverso il lucernaio di vetro è tutto, irrimediabilmente, bianco. Allora la sua figura vacilla, il biondo la sente respirare come annegasse in un mare tossico, raspando il fondo della gola per trarne sollievo. Lui lo sa, ci è abituato. La mora invece si lascia conquistare lentamente. La sconfitta per lei è dolorosa: il cielo, quel cielo bianco, pesa su chi non lo accetta.
Alcune ore dopo, il Doc uscì e tornò in camera sua.

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La Guerra Bianca
AcciónIn una qualunque periferia di una qualunque città, la guerra sta per ricominciare. Costretto a fare i conti con il passato, Alexis torna nei bassifondi dove lo attendono i rimorsi e la propria identità perduta. Non ha tempo da perdere: l'assassino d...