Ciò che è celato

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Miriam aveva paura. Teneva la mano alla sorella maggiore. Non capiva nulla. Perché si erano nascoste sotto quel tavolo? Nascondersi sotto i tavoli era una cosa che si faceva giocando a nascondino, e sua sorella non era decisamente tipo da nascondino. Si considerava troppo grande.
E perché era così preoccupata? Cosa stava succedendo?
«Miriam, ora dovrai fare la brava bambina, capito?»
Miriam annuì, aveva capito. «Devo stare ferma e in silenzio, giusto?» chiese. «Sì» mormorò Rebecca, «e qualunque cosa succeda, devi essere immobile e silenziosa. Devi diventare invisibile.»
«E se avrò paura potrò urlare?»
«No, Miriam. So che sarà difficile, ma dovrai resistere alla paura, e non dovrai fare rumore per nessun motivo. Devi controllare la paura. Non lasciare che le tue emozioni prendano il sopravvento, capito?» Miriam annuì. «Perché?» domandò. Sua sorella non rispose. «Te lo dirò dopo. Ora dobbiamo essere entrambe silenziose.» Sua sorella si mise l'indice sulle labbra, e le sorrise complice, per rassicurarla. Ma non era il suo sorriso vero. Era un sorriso nervoso e tirato. Avrebbe voluto chiedere di più, ma rimase zitta, come le aveva detto di fare. Sentì dei rumori. Dei passi. Urla. Cosa stavano dicendo? Non capiva. Forse era in un'altra lingua. O magari era l'altra lingua strana che a volte parlavano i suoi genitori, per non farsi capire da lei. Si chiamava dialetto, credeva.
C'era un uomo che urlava, ed una donna che rispondeva. Come mai urlavano tutti? Le stava venendo il mal di testa.
Poi ci fu un rumore ancora più forte. Era come un tuono, ma le fece male alle orecchie. Cosa stava succedendo?
Qualcosa cadeva per terra. Un tonfo sordo. Miriam era confusa. Sbirciò da sotto la tovaglia. E vide una cosa orribile.
Era un uomo, riverso sul pavimento. Doveva essere successo qualcosa di grave, perché era pieno di sangue. Sangue ovunque. Una macchia di sangue che si allargava sempre di più.
E Miriam urlò. Non ce la fece più. Era tutto troppo orribile, le urla, il tuono, il sangue, era tutto semplicemente troppo. Sua sorella le tappò la bocca, ma era troppo tardi. Una donna tolse di scatto la tovaglia, rendendole visibili. Aveva qualcosa di nero in mano.
Un altro tuono, ma molto più forte. E sentì sua sorella accasciarsi.
Sangue. Sangue anche da sua sorella. Sangue ovunque.
Perché non si alzava? Perché restava lì sdraiata?
Alzati, Rebecca, alzati, avrebbe voluto urlare, ma dentro di sé aveva già capito.
Morta.
Non è possibile, solo le persone cattive muoiono! Non poteva andare così!
Prese la sua mano, era ancora calda. Ma non si muoveva. Non si muoveva. Non si muoveva.
La donna le puntò l'arma contro, ma lei non se ne accorse. Avrebbe voluto solo che sua sorella si rialzasse. le sorridesse nel suo modo speciale, non quello finto, la prendesse in braccio e la porti via dal sangue. Ma sua sorella non c'era più.
La donna esitava, Miriam vedeva la sua mano tremare. Non le importava più nulla.
Abbassava l'arma e respirava profondamente. Non aveva il coraggio di ucciderla. Ma lei sapeva che lo avrebbe fatto, e anche lei sarebbe stata riempita di sangue.
Chiuse gli occhi. Miriam non voleva morire con il sangue nella memoria. Miriam non voleva morire e basta.
La donna gettò via l'arma. Miriam capì che non voleva uccidere una bambina. La donna se ne stava andando.
Miriam riaprì gli occhi. Il sangue aumentava.
Era colpa sua. Solo colpa sua.
Ed allora il suo cervello non ce la fece più. Tutto era troppo da sopportare.
Eliminò tutto. Cancellò ogni cosa.

Era dalla polizia. Cosa volevano da lei?
«Miriam, cosa è successo? Puoi raccontarcelo?»
Lei li guardò stupita.
«Non è successo nulla. Cosa volete sapere?»
«Non scherzare. Vogliamo sapere chi ha ucciso tua sorella.»
La stavano certamente confondendo con un'altra.
«Io non ho una sorella.»
Sguardi preoccupati dai suoi genitori. Nessuno sapeva cosa dire.

Era in una clinica. Tutto era bianco. Le pareti, le finestre.
Un uomo in camice bianco parlava con i suoi genitori. Parla di "superare il trauma" e di "reprimere memorie". Miriam non capiva. Perché tutti insistevano sulla morte di una ragazza che non conosceva? Perché dicevano tutti che era sua sorella?

Erano in un cimitero. Un prete parlava, e tutti guardavano una tomba. Era il funerale di una ragazza. Sua madre le mostrò la foto sulla lapide. Era carina, e sembrava simpatica.
«Ti ricordi di lei? Rebecca?»
«Non lo mai vista. Come mai siamo qui?»
Sua madre trattenne le lacrime.
«Non è importante.»

Era nella sua stanza. I suoi genitori chiudevano a chiave una porta, e mettevano la chiave in cassaforte. Toglievano delle foto dal corridoio, e le sostituivano con dei disegni dei pianeti. Prendevano tante cose -disegni, lavoretti, fogli con delle scritte- e le mettevano in delle scatole, che poi sistemavano sui mobili, in alto. Suo padre voleva buttare un alberello, ma sua madre glielo impediva. Toglievano però una piccola targa, e la mettevano nelle scatole.
Miriam era confusa. Cosa stavano facendo?
Ma qualcosa le diceva che era meglio non chiedere. Tornò a concentrarsi sul suo disegno.

Miriam era appena tornata dal suo primo giorno di prima media. Aveva chiesto a sua madre perché si ostinava a tenere in balcone quell'alberello morto e secco, ma lei non aveva risposto.

Miriam aveva trovato una foto di una sconosciuta, che le somigliava tanto, ma era più grande di lei. Suo padre le aveva detto che era una foto della zia da piccola.

Miriam si sdraiava nel suo letto, preparandosi al suo incubo quotidiano. Non sapeva quando fosse iniziato.

Miriam era arrabbiata. Aveva litigato con una sua amica, e avrebbe voluto solo urlare. Ma qualcosa le disse di non farlo.
Non lasciare che le tue emozioni prendano il sopravvento.
Loro sono pericolose.
Ti porteranno solo dolore.
Miriam si fidava di queste parole. Le sembravano quasi un ricordo. Qualcosa di innato. E divennero il ritornello delle sue giornate.
Non lasciare che le tue emozioni prendano il sopravvento.

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