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Siamo stati immobili, in religioso silenzio, davanti alla porta della presidenza. Abbiamo aspettato minuti, ore, quasi un giorno intero.

Ci hanno detto che Sannito era anziano, ma in perfetta salute. Ci hanno detto che nessuno si sarebbe mai aspettato nulla del genere. CI hanno detto che era stato prudente e saggio fino alla fine. Perfino in punto di morte.

Ci hanno detto che è stato un infarto, e che alle prime palpitazioni Sannito aveva fermato l'auto, smettendo di guidare e consumandosi all'interno del suo abitacolo.

Ci hanno detto che è stato un grand'uomo ed un grande insegnante, e poi ci hanno mandato a casa.

Sono immobile, seduta sul letto. Per la prima volta dalla mia entrata in società il mio computer è rimasto spento. Ogni giorno, dopo le varie lezioni, avevo cumuli di parole, date e citazioni da cercare. Avevo da conoscere.

Oggi non ho nulla, e questo mi terrorizza. Devo trovare qualcosa da fare, qualcosa che non lasci i miei pensieri correre a briglia sciolta.

Sannito era un grand'uomo.

Scendo da Penelope, ostentando la più serena delle mie espressioni.

-Principessa- mi saluta, e fa per posare l'uncinetto, come in ogni rara volta in cui le faccio visita.

-Non smettere, per favore- le chiedo, e lei riprende, serafica. Mi soffermo ad ammirare le sue dita intrecciarsi l'una sull'altra, dando vita a quel che sembra un berretto di lana nera.

Mi piace il nero, è denso, silenzioso. Dicono non sia un vero colore, ma se lo fosse sarebbe senz'altro il mio preferito.

Penelope tace, ed io ricordo una frase che avevo letto da qualche parte, una frase saggia. "Il silenzio fa parlare gli altri".

-Oggi è morto un mio insegnante- mormoro, e mi accorgo che è la prima verità che confesso a Penelope e, in generale, a qualcuno. La mia voce tradisce il dispiacere.

"Il silenzio fa parlare gli altri".

-Quello di italiano, Sannito- continuo, e Penelope trema. Non sembra stupita, quanto triste, ferita. Il ferro le cade di mano, e lei alza gli occhi su di me. Sono velati di qualcosa in più della semplice cataratta. Tremo a vederla, ma resto in silenzio e così fa lei. Restiamo immobili, occhi negli occhi, ed io non reggo il suo sguardo. Abbasso i miei e sento calde lacrime scivolarmi sulle guance e bagnarmi il volto. Faccio per alzarmi, in silenzio, e sento Penelope raccogliere l'uncinetto dal pavimento sporco su cui era caduto. Cammino lentamente verso la porta.

-Principessa- sento, e mi volto, sorpresa. -Hai tempo per ascoltare una storia?-

Mi avvicino a lei, annuendo, sconvolta dal fatto che la prima domanda di quella donna nei miei confronti fosse tanto insolita.

-Sì- dico, e mi risiedo di fronte a lei. Penelope sospira, e lascia che le sue dita proseguano nell'intreccio della lana, mentre i suoi ricordi e la sua voce tessono la storia che vuole raccontarmi.

-C'era la guerra, qui in Italia, quando sono nata. Non ho mai avuto l'onore di conoscere mio padre, perché, dicono, morì poco prima che io cominciassi a vivere.

Nacqui di notte in una vecchia e triste casa, tra le braccia di mia madre e delle mie care sorelle. Fummo tre donne, ed io fui l'ultima.-

Penelope si ferma, forse per prendere fiato, forse per riordinare i ricordi, e la vista di una bambina triste si sgretola davanti ai miei occhi.

-Vuoi che io prepari del tè?- le domando, ed al suo assenso l'aiuto a spostarsi in una cucina inutilizzata da anni. Non le sono mai stata tanto vicina.

Preparo un infuso caldo, e lo verso in due tazze, mentre la donna s'appresta a proseguire con la sua storia. Guardo l'ora: è primo pomeriggio.

Dicono che vivere stanchiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora