La scuola è sembrata infinitamente più grande, dalle foto. Ora, davanti all'entrata principale, mi pare di trovarmi di fronte ad un edificio perfino più piccolo della vecchia casa.
Non è molto distante da essa, ed ho imparato a memoria il tragitto su internet, quindi non ho avuto alcun problema a giungervi.
Me ne sto lì, immobile, indecisa sul da farsi. È ancora presto, sono le 7:30, e le lezioni non cominciano prima delle 8:00. Non c'è anima viva, e pur essendo l'edificio aperto mi rendo conto di non sentirmi pronta a varcare l'uscio. Non da sola, forse.
Ho sempre fatto tutto da sola, ma oggi, questa calda giornata di Settembre, è il primo giorno della mia nuova vita. Il primo giorno della vita di Kaya. E Kaya non vuole più essere sola.
Dopo una ventina di minuti il piazzale appare decisamente più affollato. Gruppi di adolescenti, tali più grandi e tali più piccoli di me, si stringono l'un l'altro.
Non si vedono da molto, penso. Circa tre o quattro mesi, in cui la scuola resta chiusa.
Resto immobile ad osservarli, fino al momento in cui il suono della campanella mobilita le masse. Mi muovo, in sincrono con loro, e mi fermo all'Ufficio Relazioni con il Pubblico per presentare il modulo d'iscrizione.
-Kaya Pioggia?- borbotta una segretaria giovanile, scrutandomi da sotto gli occhialini d'osso che dondolano, malfermi in cima al suo naso adunco. -Quinta D, in fondo al corridoio-.
Sorrido timidamente, ringrazio, e prendo il foglietto che mi viene allungato da sotto il vetro. In una calligrafia dattilografica, molto ordinata, c'è scritto "Kaya Pioggia, V D", e sul retro il mio orario delle lezioni.
Sbircio tra le classi, prima di giungere alla mia, e noto tanti volti, molti più di quanti ne abbia mai visti in vita mia.
Busso, apro la porta, entro col cuore in gola. Occhi, tanti occhi, tutti puntati su di me. Sento un formicolio alla nuca, credo sia imbarazzo. Sento le guance avvampare, e non c'è traccia di insegnante, così mi limito a cacciar fuori la voce.
-Ciao a tutti, sono nuova, mi chiamo Kaya- è tutto quello che riesco a dire, prima che uno spintone mi faccia familiarizzare col pavimento.
Com'è che la chiamano? Ah, già. Figura di merda.
-Oddio, perdonami, non si ferma mai nessuno sulla porta- risolini tutt'attorno alla mia testa -lo sanno tutti che entro così...-
Mi aggrappo alla sua mano che sventola all'altezza del mio naso, e lotto contro il mio istinto di fuggire ai ripari. A travolgermi è stato un tipetto tutto capelli, lentiggini e sorrisi. Si chiama Marco, gira sullo skateboard perfino per i corridoi, mi chiede scusa, e per farsi perdonare si offre perfino di sedersi con me.
Al primo banco.
Della fila centrale.
Unica scelta disponibile per quello che, a detta di internet, sembra cominciare come un gran bell'inferno.
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Dicono che vivere stanchi
RandomDicono che di notte, la pioggia sembri più leggera, perché la senti ma non la vedi, ed allora ti interroghi di meno su quanto forte essa sia. Dicono che la vita non dà nulla, se non un pugno di mosche e delusioni. Dicono che i sogni siano per gli il...