Minuetto.

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È un'incognita ogni sera mia
Un'attesa, pari a un'agonia
Troppe volte vorrei dirti "no"
E poi ti vedo e tanta forza non ce l'ho [...]

La voce di Mimì risuonò dall'impianto stereo all'interno delle mura di quella casa a Roma - che si trovava in zona Ottaviano, a pochi passi dalla Basilica di San Pietro - quando Irene guardò pensierosa l'orologio.
Erano appena scoccate le undici e di lui nessuna traccia in tutta la giornata; non lo biasimava affatto: era impegnato a girare i territori per via della campagna elettorale e poi sarebbe dovuto tornare a casa, dalla sua amata e - a detta sua - riservata compagna, così come la descriveva ormai su tutti i giornali, mentre lei avrebbe continuato ad aspettarlo invano, come un'idiota.

«Ma vaffanculo» sbottò, spegnendo di colpo la musica sul cellulare.

L'occhio le cadde su uno dei tanti giornaletti di gossip che aveva acquistato nelle ultime settimane per farsi ancora più del male, vedendo in copertina lui con lei, intenti a scambiarsi un bacio sulla bocca che era tutto fuorché passionale. Lo aveva trovato asettico, e non perché fosse gelosa marcia, ma perché probabilmente la cosa più passionale che lui faceva in quella foto, era accarezzare il cane di lei: un bellissimo e raro pastore tedesco nero a pelo lungo.

L'immagine di loro, mista al pensiero di entrambi avvinghiati sotto le lenzuola a fare l'amore la disgustò a tal punto da provocarle un conato di vomito, che dovette reprimere allontanandosi in fretta e recandosi verso la dispensa; afferrò un calice e una bottiglia di Aglianico, versandosene una buona quantità e buttandosi in seguito a peso morto sul divano.

«Vaffanculo tu, io e quella stronza» brontolò ancora, buttando giù il vino con una voracità tale da farsi paura da sola.

Irene aveva solo ventotto anni, era una semplice bancaria ed era nella filiale in cui lavorava, che lo aveva conosciuto, un giorno tiepido di maggio; in quell'ultima settimana aveva anche cercato di impegnarsi sul lavoro ma non le era risultato affatto facile, perché - volente o nolente - le tornava sempre alla mente il bel visino di lui, che seppur segnato da qualche ruga era ancora bello e lei ne conosceva quasi a memoria ogni singolo lineamento: dal naso lungo alle labbra sottili, alle due belle e profonde fossette ai lati delle guance che comparivano ogni qualvolta sorridesse e che gli conferivano un'aria da eterno bambino.

Stava per buttare giù il secondo bicchiere, quando udì il citofono: poteva essere solo una persona.
Suonò una, due, tre volte, ma lei non gli aprì. Lui però fu più testardo ed approfittando del fatto che un condomino stesse uscendo dal palazzo, attese che si allontanasse, congedò il suo agente di scorta e corse dentro, precipitandosi su per le scale che portavano al primo piano.
Suonò il campanello e a quel punto Irene - stizzita - si alzò di malavoglia dal morbido sofà, andando spedita ad aprire la porta.

«Ma si può sapere che cazzo-»

Lui però non le diede neanche il tempo di parlare, la spinse dentro attaccandosi alla sua bocca, baciandola con impeto e cercando subito la lingua con la sua.
Irene si lasciò baciare per qualche secondo, partecipando anche attivamente a quel bacio che era tutto fuorché casto, dopodiché lo spinse via e si allontanò, con le lacrime agli occhi.

«Irene, ma che ti prende stasera? Cos'hai?»

Giuseppe le si avvicinò preoccupato - sperando di non averle fatto male in qualche modo - e le accarezzò la schiena ed i capelli.

«Preferisci di qua o andiamo di là? In fondo, è per questo che sei venuto, no? Ti serve una dentro cui svuotare la tensione sessuale accumulata durante la giornata... E io stupida che non riesco a dirti mai di no» gli disse, evitando la domanda che lui le aveva posto.

«Irene, ma cosa-»

«Ti ho fatto una domanda: potresti gentilmente sforzarti di rispondere?» sbottò, lasciandosi sfuggire una lacrima.

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