CAPITOLO I: la fuga

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Correvo. Correvo perché non potevo fare altro.
Sentivo dei passi dietro di me e dei lievi fruscii. Non mi curavo di non fare rumore, mi aveva trovata, che senso aveva ancora nascondersi?
Lui però voleva mantenere il tutto molto silenzioso, i suoi passi erano troppo leggeri per essere sentiti dalle altre persone, ma non per me. Li conoscevo troppo bene, non sarei stata ingannata di nuovo.
Il fiato veniva a mancare, correvo da troppo. E se fosse stato questo il suo piano? Farmi correre finché non sarei crollata? Dopotutto lui era molto più forte di me.
Il cuore stava esplodendo, stava per spiccare il volo.
Dovevo trovare una soluzione. Lo dovevo fare.
Attorno a me solo una foresta. Salire su un albero era da stupidi, mi avrebbe seguito e ucciso all'istante.
Nascondersi era impossibile, mi stava addosso e gli alberi erano troppo distanti tra loro.
Cosa potevo fare?
Mi guardai attorno meglio.
Ma certo! Che stupida! Attorno a me non c'era una foresta qualunque, ma una foresta di alberi bassi!
Sarebbero stati ottimi per... COLPIRE!
Tutte le mie armi mi erano state strappate di dosso, era già tanto avere ancora i vestiti, ero sfuggita per puro caso. Lui si era guardato attorno confuso mentre mi teneva inchiodata al pavimento, come se avesse sentito uno strano rumore. Avevo colto l'occasione e gli avevo tirato un calcio al ginocchio. Lui aveva grugnito, più per la rabbia che per il dolore, ma ero già fuori nella foresta.
Anche se le forze stavano venendo a mancare, mi costrinsi ad accelerare, il colpo avrebbe dovuto essere abbastanza forte da confonderlo per poi poterlo prendere a pugni o a calci. Era l'unica alternativa che avevo. Dovevo trovare un grosso ramo basso. Mi guardai in giro: davanti a me, leggermente a sinistra, ce n'era uno.
Corsi più veloce, girai leggermente a sinistra, mi assicurai di sentirlo proprio dietro e presi il ramo in mano per trascinarlo con me, per poi lasciarlo andare proprio sulla sua lurida faccia.
Si portò le mani al viso, sciocco. Non avevo armi, ma questo non significava che non potessi picchiare.
Gli tirai un calcio al ginocchio che avevo già colpito. Volevo indebolirlo, così avrei potuto scappare.
Il ginocchio cedette lievemente, non potevo fare niente, non ero abbastanza forte per lui. Eppure gli ero sfuggita! Doveva valer pur qualcosa!
Mi aggrappai al ramo di prima e tirai fortissimo per strappare un pezzo d'albero.
A quanto pare lui fraintese il gesto e mi strappò il ramo dalle mani con una forza immensa che un povero, piccolo e fragile alberello non poteva sostenere.
Il ramo più in alto si staccò e crollò rovinosamente verso il terreno. Mi spostai agilmente, come mi era stato insegnato, e tutto cadde addosso a lui.
Rovinato dalle sue stesse mani! Davvero esilarante! Ma non potevo perdere tempo prezioso. Ripresi a correre, lasciandomi dietro quel mostro.
Sentivo ancora i suoi lamenti di dolore! Che soddisfazione! E il suo 'fare silenzio'?
So che mi avrebbe ritrovato, magari anche più forte di prima, ma la mia allegria era alle stelle! Gli ero sfuggita! Tutta da sola!
Mi chiederanno sicuramente come avevo fatto a sfuggirgli e io risponderò: "La sua forza è anche la sua debolezza". Come i grandi filosofi.
Credo, però, di aver capito al meglio questa frase ora, letteralmente.

La ragazza mortaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora