Tornerai da me

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Era notte fonda, e le urla provenienti dalla casa dei Mancini risuonavano attraverso il quartiere silenzioso, rompendo la quiete come un tuono improvviso. Ogni parola sembrava fendere l'aria, vibrando fino alle finestre chiuse delle case vicine, che restavano immobili e vigili nell'oscurità.

Dentro, la luce era appena un bagliore, tenue e incerta, ma sufficiente a gettare ombre taglienti sui muri, dove le nostre sagome si muovevano inquiete. La casa sembrava pulsare, animata dalle nostre voci concitate e cariche di tensione, ogni frase più accesa della precedente. Era come se le pareti stesse ci osservassero, pronte a imprigionare ogni parola in un silenzio che sapevo sarebbe tornato, soffocante, non appena la nostra lite si fosse spenta.

Mentre infilavo l’ennesimo maglione nella valigia, sentivo i loro sguardi addosso, come spilli che mi trafiggevano la schiena. Mia madre era ferma sulla soglia, le braccia conserte e l'espressione di chi non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo.

«Nina» iniziò, con quella voce fredda e carica di delusione che conoscevo fin troppo bene.
«Vuoi davvero andartene così? Senza parlarne con noi?»

Non alzai nemmeno lo sguardo. «Non c’è nulla di cui parlare, mamma. Ho preso una decisione.»

Alle mie parole, mio padre fece un passo avanti. Sentivo la sua frustrazione pulsare nella stanza come un’onda calda e minacciosa. «Ah, certo, le tue decisioni. Sempre a fare di testa tua, senza pensare a nessuno.»

Mi voltai, stringendo le mani ai lati della valigia. «Pensare a chi, papà? A voi, che non fate altro che giudicarmi?»

Mia madre scosse la testa, le labbra strette in una linea dura.
«Non è questo il punto, Nina. Siamo la tua famiglia. Contiamo qualcosa o no?»

Rabbrividii, colpita da quelle parole. Ma non volevo cedere, non stavolta.

«Non è una questione di voi» replicai, cercando di mantenere la voce ferma.
«È di me. Ho bisogno di andarmene.»

Mio padre sbuffò, allargando le braccia con un gesto esasperato. «Vai, allora. Ma non aspettarti che questa porta resti aperta quando capirai che hai sbagliato.»

Quelle parole mi colpirono più di quanto volessi ammettere, ma strinsi le labbra.

Chiusi la valigia con un colpo secco, cercando di ignorare quel peso che mi opprimeva il petto. Sentivo lo sguardo di mia madre ancora addosso, una lama fredda che mi trapassava anche se non la guardavo.

Mio padre rimase immobile, in silenzio, con le braccia rigide e lo sguardo di pietra. Le sue ultime parole mi rimbombavano nella mente, crude e fredde come una sentenza.

Afferrai la valigia, trascinandola fuori dalla stanza senza voltarmi. Sentivo i loro respiri affannati dietro di me, il silenzio teso che riempiva l’ingresso come un macigno.

Quando arrivai alla porta, esitai un attimo. Una parte di me avrebbe voluto girarsi, dire qualcosa, sciogliere quell’angoscia che mi divorava. Ma la rabbia e il dolore erano troppo forti, e avevo già scelto.

Abbassai la maniglia e uscii di casa, chiudendo la porta con un colpo deciso, che riecheggiò nel silenzio della strada. Il suono dello scatto della serratura mi parve definitivo, come se quella porta si fosse chiusa su un pezzo di me stessa che stavo lasciando indietro.

Quella fu l'ultima volta che misi piede in casa dei miei genitori.

***

Era proprio lui, quel ragazzo. Nonostante faticassi a crederci.

La bocca si era seccata all'improvviso, e le parole si erano bloccate, come un flusso d’acqua che si ferma in una tubatura.

Passammo alcuni secondi a fissarci in silenzio, entrambi riluttanti a rompere quell’incantesimo, come se fosse una gara a chi avrebbe trovato il coraggio di parlare per primo.

L'ultimo giorno d'inverno Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora