Cuori stupidi

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Andare avanti sembrava un concetto semplice, quasi banale, eppure, per me, era diventato un’impresa intricata come camminare in un labirinto senza uscita. Ogni passo che provavo a fare mi riportava a dove tutto era cominciato, tra i ricordi e le abitudini di cui non riuscivo a liberarmi. Non importava quanto provassi a convincermi che fosse tempo di lasciar andare: un dettaglio, un’immagine, persino un profumo bastava a farmi dubitare di ogni mio tentativo.

Forse andare avanti significava accettare che certi legami non si sciolgono mai completamente, che restano dentro come cicatrici, invisibili ma sempre presenti.

Da quando avevo iniziato a vivere da sola, non avevo mai avuto la premura di prepararmi la colazione. Forse non ne avevo mai avuto bisogno; se proprio avevo fame, mi limitavo a mangiare qualche biscotto al cioccolato già pronto o a prendere un cornetto al bar prima di andare al lavoro. Eppure, quella mattina, mi ero messa in testa di preparare i pancakes, forse perché avevo un ospite a casa.

Non ero mai stata brava in cucina, ma da bambina sognavo di fare la pasticciera. Poi, con gli anni, cambiai visione dei miei obiettivi e mi ritrovai a essere un'infermiera.

Due lavori completamente opposti, che rivelavano la mia incapacità di destreggiarmi ai fornelli.

Crescendo, iniziai a capire che la cucina non era proprio la mia vocazione, viste le mie abilità culinarie piuttosto limitate.

Presi la farina, le uova, il latte, lo zucchero e un po' di lievito. "Non manca nulla, almeno credo" pensai, mentre mescolavo gli ingredienti con un certo scetticismo.

Quando l'impasto fu pronto, lo versai sulla padella. Il primo pancake si bruciò, ridotto a un disastro carbonizzato, e andò dritto nel cestino. Il secondo, per fortuna, sembrò venire meglio, o almeno così speravo.

Erano le dieci di mattina quando Daniele aprì gli occhi per la prima volta da quando si era addormentato sul mio divano.

Si stiracchiò, prima di capire dove si trovasse. Sobbalzò, come se non si fosse reso conto di aver dormito lì. Si tirò subito a sedere, facendo un po' fatica nel farlo.

Quando finalmente si rese conto di trovarsi ancora a casa mia, si calmò, forse considerava quel luogo come un rifugio sicuro.

«Cosa è questa puzza?» chiese, guardandosi intorno con aria confusa.

Guardai i miei pancakes, non erano completamente neri, avevano solo qualche macchiolina marrone.
Non si potevano considerare completamente bruciati, o almeno così mi sembrava.

Cavolo. Erano davvero brutti.

«Buongiorno anche a te.» dissi, girandomi verso di lui con un sorriso.

«Ho dormito qui?» mi chiese, strofinandosi gli occhi ancora assonnati.

Misi l'ultimo pancake nel piatto e spensi il fornello. «Secondo te?» chiesi, appoggiando due piatti con una pila di pancakes sulla penisola.

Non era un gran appartamento, avevo solo una ceamera da letto e un bagno, con un piccolo sgabuzzino, ma la cucina e il salotto facevano parte di un'unica grande stanza, creando un'atmosfera informale e accogliente.

«La colazione è pronta, bella addormentata.» dissi, cercando di infondere un po' di allegria nel momento.

Lui mi guardò sorpreso, come se non si aspettasse tutta quell'accoglienza.

Nell'alzarsi, fece una gran fatica. Notai tutti i dettagli, cercando di valutare le condizioni della sua salute, e non sembrava stare al meglio.

Forse si trattava dell'inizio di un'infezione.

L'ultimo giorno d'inverno Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora