Un giorno come tanti

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Avete mai perso qualcosa di prezioso? E lo avete cercato ovunque, convinti che, esplorando ogni angolo del mondo, l'avreste ritrovato? Ma dopo tanto cercare, vi siete arresi, autoconvinti di averlo perso per sempre.

Eppure, ve lo assicuro, quell'oggetto riapparirà, in un momento inatteso, come per magia.

Come lo so? Perché è successo anche a me, solo che non si trattava di un oggetto, ma della mia voglia di amare, smarrita chissà dove. E credetemi se vi dico che ritrovarla è stata la sensazione più bella del mondo.

Quel giorno di fine settembre le strade di Roma erano avvolte in una luce dorata, un riverbero di sole autunnale che filtrava tra i vicoli stretti e le piazze affollate. Il Tevere scorreva placido, riflettendo il cielo in un gioco di luci e ombre, mentre un vento leggero faceva danzare le foglie già accartocciate, sollevandole e lasciandole poi cadere come piccole note di un concerto invisibile.

I sampietrini lucidi sotto i piedi, dopo la pioggia della notte precedente, brillavano con una bellezza disarmante, e il profumo del caffè appena macinato si diffondeva dalle botteghe aperte, mescolandosi agli aromi della città: il pane caldo, il basilico fresco e un tocco di umidità che sapeva di antico. Dai balconi, vasi di gerani dai colori accesi si affacciavano come spettatori silenziosi, mentre la gente passeggiava pigramente, godendosi quella pace effimera prima del trambusto che di solito caratterizzava la capitale.

All’ospedale, la mattina iniziava con un ritmo che sapeva di urgenza e rassegnata routine. Il sole si affacciava timidamente dalle finestre alte, proiettando strisce di luce sui pavimenti sterili e sulle pareti bianche, illuminando volti stanchi e mani abili che si muovevano senza esitazione. Il ticchettio dei passi risuonava nei corridoi, un'eco costante, mescolata al suono dei monitor che segnalavano il battito di cuori e al sibilo delle macchine per l'ossigeno.

Un odore pungente di disinfettante pervadeva l'aria, sovrastando ogni altro aroma, se non per quei momenti in cui il caffè forte del distributore automatico arrivava a coprirlo per un istante. Le infermiere, con le divise perfettamente in ordine, si scambiavano sguardi rapidi e sapevano già cosa fare, orchestrando le loro mansioni con una precisione quasi musicale: una parola di conforto qui, un controllo urgente lì.

Nei corridoi, pazienti assonnati si stiracchiavano nei letti, alcuni ancora persi in sogni indistinti, mentre altri fissavano il soffitto con occhi colmi di pensieri. I medici sfogliavano cartelle cliniche e discutevano tra loro in tono basso, preparando i giri mattutini, mentre un’ambulanza entrava nel pronto soccorso, annunciata da sirene che si spegnevano, lasciando dietro di sé solo un’impressione di adrenalina sospesa.

«Buongiorno, signora Ferrari.» Aprii le tende, lasciando entrare un raggio di luce che illuminò la pila di libri sul suo comodino: racconti fantastici, molti di Jules Verne, altri di autori sconosciuti, scrittori di un tempo che non apparteneva certo alla mia generazione.

Era il mio lavoro, in fondo. Girovagare tra le stanze, controllare che ogni cosa fosse al suo posto, assicurandomi che tutto andasse bene prima di passare al paziente successivo. Non era il massimo come mansione, ma ci mettevo tutta la mia passione, consapevole che anche i sacrifici invisibili possono regalare soddisfazioni immense.

Certo, il vero motivo che mi aveva spinta verso infermieristica era ben altro. Vedere i volti delle persone che riuscivano a sconfiggere una malattia terribile era indescrivibile; i loro sorrisi, mentre varcavano la porta d'uscita, erano un premio senza prezzo. C'è qualcosa di meraviglioso nello stare accanto a chi sfida la morte e grida: "Non mi prenderai, non oggi!"

Cavolo, era davvero straordinario come lavoro! Vi giuro che ogni volta che una paziente riusciva a vincere la sua battaglia mi venivano i brividi e gli occhi mi si riempivano di lacrime.

L'ultimo giorno d'inverno Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora