Maneggiami con cura

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Il rumore delle sirene dell'ambulanza risuonava ancora nelle mie orecchie, un'eco sorda che non riesco ancora scrollarmi di dosso.
Eppure, era il silenzio di certe storie a pesare di più, quello che si nasconde tra le pieghe di frasi dette a mezza voce, tra i lividi spiegati in modi che suonano sempre un po' stonati.

L'odore di disinfettante e medicinali mi colpì come sempre: pungente, familiare, ormai parte di questa routine che mi avvolgeva giorno dopo giorno.

Il Pronto Soccorso era un caos organizzato, una tempesta di suoni incessanti. Voci che si sovrapponevano, lamenti sommessi, il bip regolare dei monitor, tutto mescolato in un ritmo che scandiva il tempo in modo disturbante.

Mi muovevo tra le corsie cercando di essere invisibile, un'ombra vigile che evitava di farsi sommergere dai pensieri che, come onde, minacciavano di travolgermi.

«È caduta dalle scale» spiegò una voce tremolante.
Alzai lo sguardo verso il marito della paziente, un uomo che stringeva nervosamente un mazzo di chiavi, il cui tintinnio mi parve amplificato nella sala quasi silenziosa.

La donna, sua moglie, era distesa sul lettino, una smorfia di dolore sul volto e una mano appoggiata all'anca. Rughe sottili segnavano il suo viso, mentre i capelli grigi erano raccolti in uno chignon disordinato.

«Buongiorno, come si chiama?» domandai, stava per rispondere nuovamente il marito, ma il mio sguardo gli fece capire che la risposta l'attendevo da lei.

«Luisa.» rispose.

«Ciao Luisa, io sono Nina. Mi occuperò di lei.»
Mi chinai accanto a lei, afferrando una garza imbevuta di disinfettante.
Tamponai delicatamente una ferita sul suo ginocchio.

«Può dirmi come è successo?» chiesi, mantenendo la voce calma. Ma non appena iniziò a rispondere, il mio sguardo si strinse. Qualcosa non quadrava.
La posizione della ferita, la direzione degli ematomi, il modo in cui evitava di incontrare i miei occhi... tutti dettagli che urlavano che c'era di più.

Abbassò lo sguardo.
«Sono scivolata... sul tappeto» sussurrò. Sentii quel fremito nella sua voce, una piccola incrinatura che mi mise in allerta. In quei corridoi avevo imparato a leggere tra le righe, a cogliere quel disagio che spesso nessuno riesce a nascondere del tutto.
«Che stupida.» aggiunse imbarazzata.
Ma non insistetti. Sistemai un cerotto con delicatezza.

«Ma assolutamente no, pensa che io una volta sono incipata nei fili del computer.» La rassicurai e un leggero sorriso si intravise sul suo viso.

«Va tutto bene, signora?» provai a chiedere ancora, cercando di incontrare i suoi occhi. Lei accennò un sorriso forzato.
«Sì, tutto bene.»

Mi concentravo sul movimento delle mani, sul modo in cui i miei guanti sfioravano la pelle della paziente: un gesto metodico, quello di sempre, per arginare il senso di sospetto che cresceva dentro di me.

Forse era solo stanchezza, o forse c'era davvero qualcosa che non quadrava.

Federica entrò nella stanza, il walkie-talkie che sfrigolava attaccato alla sua uniforme. Il suo arrivo era come una ventata d'aria fresca, come un raggio di sole che illumina un cielo cupo. I capelli scuri legati in una coda alta e l'uniforme che non riusciva a nascondere la sua energia.

«Ehi, Nina.» disse, osservando il monitor accanto al letto con un'espressione concentrata.

Ricambiai il saluto con un cenno, finendo di sistemare le fasciature. Una volta concluso, alzai lo sguardo su di lei, per guardarla negli occhi.
«Sembra che ti sia andata abbastanza bene con qualche graffio. Ma ovviamente è meglio fare comunque qualche esame. La chiameranno non appena saranno pronti per gli esami.»
Mi sfilai i guanti e mi spostai accanto a Federica, incrociando le braccia e cercando di trovare un briciolo di calma.

L'ultimo giorno d'inverno Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora