Der Große

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Tra Oppeln e Mollwitz, 10 aprile 1741

Cosa ci lega a questa Terra, mi chiedo, da inseguire la grandezza? Sono stato uno sciocco a credere che una mosca come me potesse mordere un gigante, ed ora sono in fuga braccato come un cervo dalle corna spezzate.

Dio, tre mesi son durato sul trono, e ora guardami, Signore, guardami! In fuga dal campo di battaglia, sarò la barzelletta di ogni corte d'Europa.

E parlo pure da solo, Signore, come se tu potessi ascoltarmi! Stramaledetto te e stramaledetta quella bisbetica di un'austriaca! Ho osato, ho osato osare, e ora vago nella notte come un vagabondo qualsiasi, senza una casa, senza una corona.

Domani non avrò una casa, ecco: gli austriaci saranno già in marcia su Berlino a quest'ora. E si prenderanno la mia corona, il mio trono e i miei cavalli. Due cose vorrei mi lasciassero, se mai mi terranno in vita: il flauto e la penna. Ma che vita sarà, da buffone di corte, da giullare itinerante!

Luna, bastarda! Non ti nascondere, illumina la strada!

Ecco, la pazzia mi coglie: non m'hanno ubbidito quei cani dei miei fanti, spero mi ubbidiscano gli elementi della natura. Schifoso sentiero fangoso che non so nemmeno dove mi porti. Ho perso l'orientamento, ho perso il senno, ho perso la faccia, mi restano solo due cose: il cavallo e l'uniforme! E la seconda non vale più nulla, per causa mia.

Che vergogna.

Luna! Torna qua, bastarda! Sparita dietro una montagna. Ma una luce... ed un'altra. Buon Dio, deve essere Oppeln, allora c'è ancora speranza! Posso sguarnire la fortezza, muovere la riserva, tornare a Mollwitz di gran carriera e domani mi porteranno in trionfo dalla Slesia sino a Vienna! Sì! Ho tutto in pugno ancora! Posso ancora giocare qualche carta prima dell'alba.

«Ehy, della fortezza! Aprite!» Il mio pugno schiantato a più riprese sull'immenso battente è così minuscolo in confronto. «C'è nessuno?» Lo stesso battente in quercia che l'altro giorno hanno sfondato i miei bravi cani. «Allora?»

Una finestrella si apre al centro del battente, e un qualche losco figuro mi scruta. «Che vuoi, pezzente?»

Pezzente, a me.

«Come osi, cane d'un soldato! Sono io, Federico!»

«Federico chi? Vedi di andare a farti inculare in qualche fosso, cafone! Qui non ne vogliamo di straccioni.»

«Ma...»

«Sparisci, ho detto, o ti pianto una palla nella schiena!»

Trattato così dalle mie stesse guardie, quelle stesse guardie che fino a quattro ore fa comandavo. Che insulto, che insolenza!

«Dimmi di che compagnia sei, cane, e stai sicuro che domani dal tuo colonnello ti farò frustare!»

Quello sbuffa. Cane.

«Sparisci.»

Non so cosa mi suoni in testa, all'improvviso. Sarà l'inflessione con cui gli esce quello "sparisci", o forse la rabbia che sbollisce mentre mi sbatte l'anta dello spioncino in faccia. Non aveva l'accento del nord, quel tedesco, per nulla. Piuttosto, sembrava qualcuno del sud, o poco più a est... possibile che gli austriaci abbiano ripreso la fortezza? Quale disgrazia, quale scherzo del fato! Quale onta per la casa di Brandeburgo!

Ridotto alla miseria e costretto a rimettermi sulla strada nel cuore della notte, coi calzoni strappati dai rami e gli stivali sporchi di fango fino al ginocchio.

Chiedo solo una penna, qualche foglio, vorrei solo scrivere versi in compagnia di Voltaire. Ah, Voltaire, se solo fosse qui. Mi renderebbe felice. Rimarrei sotto le stelle una vita, se potessi passarla a scrivere versi per Voltaire. Al momento però mi vengono solo rime sul senso della morte... e ancora mi chiedo perché viviamo.

Apeimeron. Racconti e poesieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora