L'ascesa

21 4 5
                                    

Tempo sconosciuto

«Ti chiedi mai cosa ci sia lassù?»

Trago alzò la testa dal quadro di comando della pressa idraulica e guardò il fratello, le mani ferme sul nastro di gomma e lo sguardo alto sopra i macchinari.

«Torna al lavoro» gli disse soltanto, e si chinò di nuovo sul banco, riprendendo col continuo tonfo dell'acciaio contro il cuoio, una costante e perenne ninnananna che li cullava a ogni ora in quell'oscurità che chiamavano casa.

«Dico, Trago, non ti chiedi mai cosa ci sia oltre quella porta?» Suo fratello osò indicare la lunga scala che, lontano sul confine del buio piano, si stagliava immensa verso l'alto, verso quello che chiamavano sole.

«No, non mi faccio domande. Non fartene neanche tu, o stasera non mangiamo» gli rispose. «Dai, muoviti.»

«Eppure ci dev'essere qualcos'altro oltre il cucire e tagliare. Voglio dire, ti chiedi mai da dove viene il grano che lavoriamo, e dove vanno i pasti che sforniamo?»

«Nei nostri piatti.»

«Trago, ma per favore... quello che produco in un giorno ci sfamerebbe per un anno.»

«Senti, quello che facciamo lo facciamo perché ci assicura un letto, un tetto e due pasti caldi. Tanto mi basta. Torna al lavoro.»

Ancora una volta, la ninnananna della pressa riprese, cantata in solitaria.

«Beh, a me non basta.»

«Oideon, torna qua.» Trago fissò suo fratello fare qualche passo in avanti. Gli strumenti della loro fatica gli scivolarono dalle mani e colpirono il suolo con un clangore rovinoso.

D'istinto Trago si piegò nascondendosi sotto il banco, e cercò le teste dei compagni tutt'intorno a loro.

Nessuno s'era preoccupato del rumore, per sua fortuna, nessuno si era distratto. Erano tutti troppo presi dal loro daffare per preoccuparsi di uno che stava scappando. Ma qualcuno prima o poi lo avrebbe fermato. Qualcuno prima o poi avrebbe dovuto fermarlo.

«Oideon, porca miseria. Ci farai perdere il lavoro!» Trago lo inseguì.

«E cosa ci faranno allora? Ci ammazzeranno? Ci butteranno in una gabbia di un metro per due? Non vedo differenze, io» insistette suo fratello, e si infilò tra i tubi di acciaio, sbuffi di vapore e lo sferragliare di catene.

Cos'altro poteva fare, se non seguirlo in quegli stessi stretti cunicoli in cui s'infilava e spariva? A fatica, sbattendo più volte la testa e rischiando di rimanere incastrato, Trago gli tenne dietro, sudato e sporco di grasso e fuliggine, lercio fin sotto la tuta da operaio, fin dentro la pelle.

La scala si avvicinava, suo fratello rallentò il passo.

«Oideon!»

Finalmente riuscì ad afferrarlo per il polso, e quello si voltò a guardarlo stranito, come se fermarlo e riportarlo indietro fosse la cosa più lontana da quella giusta da fare. Sorpreso, fissava ora lui ora la mano che gli stringeva il polso. Cosa si aspettava, che lo mollasse, forse?

«Avanti, torniamo indietro. Io ne ho avuto abbastanza.»

«Ma cosa temi? Trago, mi spieghi di cosa hai paura?»

Trago distolse lo sguardo, scosse la testa e lo tirò verso la strada che avevano già percorso. «Andiamo, prima che qualcuno ci fermi.»

Oideon non si mosse. «Trago, per favore, guardati intorno.»

Per una volta, Trago lo ascoltò. Ed effettivamente, nonostante tutto quel mondo di metallo e di carne intorno a loro ― di sferragliare di catene, di sbuffi di presse e di vagiti dei forni, di odori di grasso, di cuoio, di ferro e quell'acre sentore che si incollava alla pelle ― aveva sempre più l'impressione che fossero completamente soli, come un'anomalia in un corpo cui non appartenevano. Nemmeno la scala, unica strada verso l'esterno, pareva sorvegliata da guardie, o da altri come loro. Là, tra il metallo e gli scalini su cui si riflettevano quei pochi raggi di luce bianca, erano soli.

Apeimeron. Racconti e poesieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora