2021 C.E.
Quello che mi accompagna ogni notte, prima che il caffè fumi dentro la moka, è una strana sensazione, un continuo sferragliare e sbuffare di locomotive che mi artigliano il petto. Vorrei parlare a qualcuno nella folla senza volto che mi circonda, ma ognuno corre sulla banchina senza preoccuparsi dei malcapitati che scivolano sul cemento, sull'acciaio, che si addormentano sul pietrisco e sul legno. Vorrei poter prendere in mano il rame sopra la mia testa, pur di sentire qualcosa d'altro, ma tutto ciò che il mio corpo mi concede è il rumore di un aviogetto nelle orecchie pressate da un brusco atterraggio.
Ecco, solitamente al poco ossigeno capisco in qualche modo che è giunta l'alba ― è forse un po' colpa dell'abitudine ― eppure continuo ad avvertire il macigno sul petto e le coperte che mi stanno strangolando, premendo attraverso il ruvido pigiama sulla pelle irretita dal freddo, punzecchiata da ogni sottile pelo irrigidito del mio corpo. Posso già prevedere l'umore che avvolgerà il materasso al mio risveglio, il senso di gelo che la pelle umida raccoglierà sul tragitto da qui al lavandino, allo specchio che ricoprirò di nebbia e schiuma solo per essere certo di avere ancora un po' di vita.
Da qualche parte sotto il Sahara ― sotto... a Sud ―, quando vuoi infilare la testa in un formicaio e lasciare la tua schiena alla mercé del sole, ti consigliano di allevare vacche. Da questa parte del mare, invece, il consiglio è la terapia. Ogni droga aiuta, se non riesci a guardarti allo specchio, in quello specchio dove il cartellone delle partenze lampeggia per indicarmi destinazioni che non vedrò mai, dove non sarò mai, per mettermi fretta nell'arrivare dove non devo andare. Una mano mi spinge, la gomma d'una stampella contro il calcagno che se non mi porta avanti mi fa cadere, sempre lì, in mezzo al pietrisco e all'acciaio.
E il treno fischia, e qualcuno maledice che farà ritardo. Un bambino infastidisce sua madre, ché vuole il seno, mi ricorda che il mondo andrà avanti, prima o dopo. Con o senza questo ammasso di atomi che chiamiamo casa che verrà divorato dal fuoco tra troppo tempo. O troppo poco.
Sento in mano la ceramica di una tazza, è il calore che mi concedo con un vecchio ricordo che ormai è solo un ricordo, malinconia. Che non mi parla più se non quando sogno il proibito. E mi manca, dannazione, mi manca e vorrei aver preso quel treno diretto a Berlino. O forse era un aereo per San Pietroburgo, ma pioveva ed i lampi nascondevano il suolo oltre le ali e gli aviogetti mi schiacciavano come corpi nudi, ansimanti, disperati, che chiedono vita.
Mi manca quella sensazione di un senso, mi manca la presenza di qualcuno che abbia solo due zampe, come me, a toccare il suolo. Mi mancano le sue mani nel letto che cercano il mio collo, la mia maglietta, le mie scapole che le piacevano tanto.
Ho solo un ruvido pigiama, un aviogetto in testa e un treno sul petto, tra lo stomaco e l'aorta. Il capotreno fischia e mi lascia ancora una volta per terra, e l'odore di moka è un prurito nel naso, un'unghia penetrata tra il cotone e la lana, dritta fino al mio nervo. Sento sabbia in faccia, umida battigia di un mare che avrò visto l'ultima volta da un taglio sotto l'alluce destro, dal pizzico della chela scarlatta d'un granchio che non mi diverrà un polpo nel secchio fratturato che mi porto ogni volta dietro, quel secchio verde che un giorno mi restituì il mare, rigettato persino da lui. Posso sentire le sue ventose addosso, sotto il suo viscido molle cero, camminano lungo il mio addome, mi schiacciano le gambe, respiro di nuovo.
Un coltello mi punge la tempia, e squilla al ritmo gratuito di Kevin McLeod. Apro gli occhi al mondo, mentre il peso ritorna, e mi guarda, affamato, e mi lecca di nuovo il naso, ritirando gli artigli prima che la mia mano la butti giù dal letto, vogliosa di respirare. Impasta le coperte e mi guarda, come fossero pane, e ancora si lecca il baffo malefico che mi condanna ogni notte.
Starnutisco, fermo la sveglia, e rimpiango come sempre quella scatoletta di Rio Mare lasciata sul ciglio del marciapiede una domenica di compassione. Ma in fondo, mentre scoperchio il paté di tacchino e mi tappo il naso, prima di poter finalmente calare nella moka il caffè e imbottirmi di antistamina, quelle quattro zampe sotto un cuscino peloso di nove chili sono la mia vacca, la mia vita.
E ringrazio ancora, al suo miagolio, d'averla presa con me.
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Immagine generata con AI Stable Diffusion 1.5 ― Aereo in tempesta sui treni d'una metropoli nello stile di Mark Rothko.
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Apeimeron. Racconti e poesie
Short StoryDal greco "di infiniti giorni", raccolgo qui racconti autoconclusivi e quelle poche poesie che scrivo, in maniera sparsa e senza soluzione di continuità.