E ora possiamo andare

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Nord Italia, Ottobre 2019

«Io me ne vado.»

Arturo, seduto al bancone in cucina, si fermò a una spanna dall'addentare la sua pastafrolla alla crema e guardò con occhi sbarrati l'amico e convivente, Michele.

«In che senso?» gli chiese poggiando lentamente la pasta e raddrizzandosi sull'alto sgabello che usava sempre come trono.

Michele stringeva con determinazione la maniglia della porta di casa, così forte da sbiancarsi le nocche, il vecchio cappotto polveroso gli pendeva pesante dalle spalle curve.

«Io me ne vado. Esco a prendere un po' d'aria.»

«Ma è successo qualcosa?»

«Sì. Ho bisogno di cambiare aria. Io... devo andarmene. Addio.»

Arturo non si mosse di un millimetro, immobile sul suo trono. Dall'altra parte del muro arrivò ovattato il fischio di un treno e con esso il suo rapido sferragliare, un tremito basso, lieve, ma sufficiente a far vibrare appena un poco la parete.

«È qualcosa che ti abbiamo fatto noi? Michele, guardami.»

«Io...»

«Michele, ti va di parlarne?»

Arturo, come suo solito, era dannatamente deciso, freddo, spietato. Michele invece evitava il suo sguardo indagatore e si fissava le consunte scarpe stringate che si ostinava a indossare da ormai troppi anni. La pressione sulla maniglia diminuiva, la sua presa cedeva, così come veniva meno la sua determinazione.

«Io...» Michele si sforzò di non balbettare. «Sì.»

***

«Sei nuovo di queste parti, vero?»

Arturo lo fissava dall'alto, un sorriso sardonico stampato sul viso. Teneva le mani nascoste nella giacca della colorata tuta, fuori tempo massimo per qualsiasi moda possibile, senza minimamente degnarsi di porgerne una al suo interlocutore.

«Sì... e temo di essermi perso» rispose Michele, aggiustandosi la cravatta sotto il maglioncino e passandosi ripetutamente la mano tra i capelli, nella speranza di aggiustare un ciuffo ormai troppo lungo che non voleva saperne di stare in piega.

«Se ti serve una mano posso aiutarti, la compagnia è grande ed è normale per quelli nuovi perdersi. Certo, di solito non vanno a sbattere contro le porte.»

Michele rimase in silenzio, fissando il muro. Stringeva convulsamente il pugno sinistro e con la destra cercava in tasca il pezzo di carta con le indicazioni per il nuovo ufficio.

«Ne parliamo davanti a una birra, invece di rimanere come dei piombini in mezzo al corridoio?»

Michele tirò fuori il foglio stracciato e si degnò a malapena di guardarlo. Un qualche impiegato anonimo passò sbattendo incurante contro la sua spalla.

«Alle 8:30 del mattino? Sicuro?» rispose dopo qualche secondo, mettendo a fuoco il suo interlocutore.

«Sì, perché no?»

«Beh... io... oh, va bene, però credo che prenderò solo un caffè, forse.»

Arturo fece spallucce e si voltò, facendo strada.

«Tu in che reparto lavori?» chiese Michele ponendosi al suo fianco.

«Io consegno solo la posta. E aggiusto le cose degli altri.»

Avanzavano per il corridoio, lentamente, mentre intorno a loro la marea di colleghi spingeva in direzione ostinatamente contraria.

«Non mi hai detto come ti chiami.»

Apeimeron. Racconti e poesieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora