1983
«Ale, chiedi un altro succo?»
Nemmeno devi tirare giù il BUR da quattro lire che tengo in mano, per avere la mia attenzione.
«È il terzo» ti dico, ma già punto la porta del bar, in agguato di un cameriere.
«Ti prego» e torni sulle tue carte.
Vorrei menarti il libro in testa, se non fosse che mi nasconde mentre vago tra il colletto e la tua camicia sbottonata, così sfacciata.
«Mi spieghi che combini, una volta tanto?»
«Mah, le solite cose.»
Le solite cose di cui mi tieni all'oscuro, ma io vorrei solo conoscere un po' più di te: vorrei sapere cosa combini l'inverno, che ti porta a scendere dal treno ogni santa volta con le ginocchia già sbucciate nonostante non abbiamo più otto anni; vorrei sapere cosa ti dice tuo padre di mio padre, quando paga per la solita casa sperduta in campagna dove ci ritroviamo tutti gli anni, a poche pedalate dal mare; vorrei sapere che fai, senza di me.
«Vediamo le stelle cadenti, domani, sì?»
Lo dai per scontato, come dai per scontato che io me ne starò buono in un angolo del terrazzo, con i gomiti appoggiati al parapetto coperto di licheni e gli occhi rivolti al cielo e non verso di te. Ma vorrei solo dirti che ti sbagli.
Appena oltre il muro del BUR, appena oltre gli occhiali da sole che nascondono il tuo sguardo assorto che scorre e scatta sui fogli freschi di stampa, io mi chiedo perché non mi parli anche se sorridi ogni volta che noti ― e lo sai ― che ti spio.
Il cameriere esce al sole, lo chiamo, ti serve, e via daccapo nel nostro silenzio fatto di tiepida compagnia sotto il fuoco di luglio.
«Bruno, non hai fame?»
Ti guardi il polso, alzi la testa e fissi il cielo. «È ancora presto» e via di nuovo a studiare.
Ma perché non mi parli e mi dici chi sei? Perché fingi che io non sappia cosa mio padre pensa di te, cosa mia madre nasconde nell'imbarazzo e tace se quel cretino di suo marito commenta qualcosa che non deve? Tuo padre? Che dice? Lo sa tuo padre? Ti tratta anche lui da malato?
«Ale, che c'è?»
«Cosa.»
«Mi guardi. Che c'è?»
C'è che sei frocio, Bruno, e non lo dici ma lo so perché si capisce, in qualche strano modo. C'è che mi preoccupo di vederti solo e che te ne tornerai anche quest'anno a Torino e potrei non vederti mai più. C'è che ho paura di perderti e che tu perda me, e il timore ch'io sia il tuo unico amico mi attanaglia e rivolge le viscere e mi chiede di chiederti: «Come stai? Davvero, Bruno, come stai? L'hai detto ai tuoi almeno o fingi anche con loro? E hai già amato un altro uomo o siamo solo tu ed io e le mie ragazze di cui ti accenno ogni tanto e tu fingi di interessarti ma forse...»
«Hai una gomma?»
«Eh?»
«Ho fatto un casino, questo è tutto da rifare. Non è che hai una gomma?»
Cerco nella tasca dei bermuda di jeans, trovo la stessa che ti ho rubato venti minuti fa, e nemmeno te ne sei accorto o mi hai solo retto il gioco.
«Ecco.»
«Grazie.»
Bruno. Bruno, Bruno, Bruno. Idiota che non mi parli, come se non fossi l'Alessandro che conosci da quando hai sei anni e fai il bagno coi calzoni dove l'acqua è più scura e più salata. Bruno, come stai? Ogni volta che ti vedo amo il tempo che passa e butto giù un bicchiere solo per trovare il coraggio di chiederti: «Andiamo a casa?»
«Hai già finito il libro?»
«No» biascico, «Ma ho sonno.»
«Che hai fatto stanotte?»
«Nulla, ho dormito.»
«Tu dormi sempre. Eppure hai ancora sonno.»
Bruno, guardami, parlami, dammi una risposta a una domanda che non so come porti. Hai forse paura di perdere anche me? Pensi che io non ti vorrò più essere amico? Hai paura, Bruno? Ti faccio paura? Davvero?
Non ti fidi di me?
«Ale.»
«Che c'è?»
Mi guardi oltre le lenti scure, superi il muro, il tuo, il mio, quell'altro alzato dal libro. «Niente. Ti vedo agitato.»
Il cameriere passa di nuovo e porta un'altra bottiglia.
«Nulla. Ti ho detto, non ho dormito.»
Indugi ancora un po' su di me, fingi che non abbia detto un'immane cazzata. Poi torni come sempre alle tue carte.
Quando il sole ti acchiappa la nuca, finalmente ti stiracchi.
«Andiamo, per oggi basta.»
Annuisco, anche se adesso vorrei io qualcosa da bere.
Mi trascini alla bici, togli il cavalletto per me e me la passi, e sorridi.
«Quindi domani vediamo le stelle» confermi inforcando la sella.
Mastico il rimorso e mi appoggio ai pedali.
«Certo» sussurro, «Come sempre. Guardiamo le stelle e non dormiamo mai.»
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Foto di Annie Spratt
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Apeimeron. Racconti e poesie
Short StoryDal greco "di infiniti giorni", raccolgo qui racconti autoconclusivi e quelle poche poesie che scrivo, in maniera sparsa e senza soluzione di continuità.