Hybris

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338 a. C.

Iolea tesseva, seduta su uno sgabello al centro del gineceo: con rapidi e silenziosi movimenti passava la spola di lana da una parte all'altra del ruvido ordito, fissando con occhi vacui il disegno che andava lentamente formandosi. Dalla strada, attraverso il cortile della casa, giungevano i rumori della folla in festa, e i cimbali distanti la cullavano, tanto che non si accorse quando il fratello entrò nella stanza.

«Iolea!»

La donna sussultò, ricadendo dal suo iperuranio.

«Polistramide» sussurrò al gigante dai capelli scuri che era appena entrato. Nonostante fosse ben più giovane, emanava autorità. «Mi hai spaventato.»

«Torno ora dall'Ecclesia» continuò il fratello, avvicinando uno sgabello a sé. «Demostene ha chiesto altri fondi per Tebe. Non resta un'oncia di argento in tutta Atene, ormai.»

Iolea riprese a filare. «La guerra procede male?»

«No, Megás è ancora bloccato in Illiria, da quel che sappiamo. Abbiamo tutta l'estate per fortificare la Beozia, di questo passo. Questa sera hai intenzione di venire ai misteri?»

«No» rispose lei, «Sai che non voglio, Polistramide. Ho perso interesse per queste cose.»

L'uomo si gettò sullo sgabello e contemplò l'anziana sorella.

«Smettila di pensare al tuo defunto marito e trovati un compagno, che si prenda lui cura di te, ti stai lasciando appassire, tutta sola qui dentro. Io ho altro a cui pensare, più importante della tua vedovanza. Dov'è finita la tua dannata schiava?»

Iolea roteò gli occhi e sospirò, lasciando che il discorso si perdesse nel dedalo di pensieri del fratello, troppo preso da politica e sesso. Ogni volta che si ritrovavano a parlare di simili questioni, del suo onore e della proprietà, la discussione aveva sempre lo stesso finale: che lei era un peso per le finanze del fratello, che quantomeno poteva uscire di casa e partecipare ai riti, che aveva preso la vedovanza troppo a lungo. Ma la verità era che Polistramide voleva semplicemente la casa tutta per sé.

La tanto attesa schiava entrò a passi leggeri nel gineceo e a testa alta servì del vino a Polistramide, che accettò senza esitazioni, scivolando con lo sguardo lungo i fianchi della ragazza, come spesso faceva.

«Posso fare qualcosa per te?» chiese lei con voce dolce alla padrona. Il suo greco, lingua a cui era stata costretta sin dall'infanzia, non nascondeva l'accento dei popoli del nord.

«No, grazie, Geretrudis, puoi aspettare qui.» rispose Iolea.

Lei si mise ad attendere in un angolo, mentre il suo incarnato da bianco si faceva d'un vivo rosso sotto lo sguardo di Polistramide, che rapido riprese a parlare di politica e del raccolto in arrivo. La sorella lo lasciava parlare e intanto continuava a far muovere le leve del telaio e la spola, mentre quello s'animava sempre più e infine usciva rovesciando e trascinando con sé il mobilio, blaterando di sacrifici e dei.

Iolea sospirò di nuovo.

«Perché non reagisci, padrona?» chiese Geretrudis avvicinandosi, il naso tutt'un fremito e gli occhi infiammati. «Non sei stanca di lui? Dovresti dargli ascolto, o andartene, o cacciarlo via. Almeno ce ne libereremmo.»

Iolea guardò la schiava con fare materno, sapendo che lei non poteva capire. La giovane chinò di nuovo il capo e mormorò delle scuse.

«È il mio tutore, così ha scelto l'Ecclesia. E lui non può a sua volta cacciarmi.» La donna si alzò e si allontanò dal telaio. Geretrudis con animo lieve si avvicinò per aiutarla, e lei lasciò che le sue mani dure la toccassero.

Apeimeron. Racconti e poesieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora