Oggi
Tutto è cominciato una mattina dal dottore. Seduto sul lettino per nulla morbido, con ancora i diodi attaccati al petto nudo e umido di vaselina, continuo a fissare il primo accenno di calvizie dell'uomo lì davanti nella speranza che possa parlarmi al posto dei suoi occhi, tutti assorti nel leggere e rileggere il plico di fogli che io stesso gli ho consegnato al mio ingresso, qualche ora fa.
«Allora?»
«Non so che dirle» mi risponde, e aggiunge i risultati dei suoi esami alla cartella già spessa. «È tutto negativo.»
«Ma com'è possibile?»
«Guardi, il suo sistema nervoso non presenta alcun tipo di danno. Non c'è un accumulo di huntingtine...»
Lo guardo.
«È una proteina.»
Doveva essere una strana occhiata.
«Non c'è un accumulo che possa giustificare una malattia di tipo ereditario. La corea, per intenderci. Né ci sono lesioni di qualsiasi tipo all'interno del tessuto cerebrale. Lei non ha nessuna storia di ictus, infarti, malattie autoimmuni, ipertiroidismo o iperglicemia. E sicuramente non ha avuto problemi di gravidanza.»
Non rido.
Il dottore riprende: «Insomma, se vuole il mio parere, se mi posso permettere... direi che è psicosomatica.»
Devo averlo guardato di nuovo male.
«Non sto dicendo che sta fingendo» continua lui, «Intendo che magari il suo malessere deriva da altro e il corpo lo affronta, lo somatizza appunto, in questa maniera.»
«Negli spasmi?»
«Esattamente. Lo so, rende perplesso anche me. Per caso ha mai preso regolatori della dopamina?»
«No, solo... un regolatore della serotonina.» La gola mi si è ridotta a una salina. «Per...»
«Depressione?»
Mi limito a un cenno d'assenso.
«Sicuro di non aver preso altro? Qualche antipsicotico per la schizofrenia, per esempio.»
«Sì. E poi... gli spasmi sono venuti prima.»
Il dottore guarda per un attimo il cortile oltre la finestra, guarda l'ultima inaspettata neve che si scioglie al sole di marzo. Vorrei capisca che gradirei rivestirmi.
«Ha problemi di sonno?»
«Solo ultimamente. Proprio per...»
«Gli spasmi.»
«Sì.»
Sospira. Ne sa quanto me, glielo si legge in faccia. Poggia la cartella sul tavolino accanto ai macchinari, quasi la lancia, sospira e incrocia le dita sulle gambe avvolte di blu.
«Non so che dirle. Posso consigliarle uno psicoterapeuta, abbiamo un buon reparto qui.»
«Ho già i miei contatti.»
«Capisco. Beh, allora ci torni.» Si alza, mi stacca i diodi e mi passa una salvietta.
Mi asciugo mentre lui cambia la carta sul lettino, quella carta tanto fastidiosa: asettica, pruriginosa. Mentre mi riabbottono la camicia mi offre pure una caramella.
«Così, per risollevare l'umore.»
Sono lì lì per pentirmi di essere venuto, maledizione.
Ringrazio, gli stringo la mano, riprendo le mie carte e mi dirigo al parcheggio dove la neve è stata già spalata settimane prima. Ora non è abbastanza, non ce n'è bisogno. Salgo in macchina e stringo il volante. Chissà per quanto ancora potrò guidare. E se peggiorasse? Se divenisse continua?
Ecco, già l'avverto, la tensione nel collo, la pressione alla base della mandibola. I muscoli si contraggono, la testa scatta di lato, guardo la strada dal finestrino. Vorrei solo smettesse. È inutile persino che riporti la testa in linea col corpo: continua a girare di lato, libera da sguardi giudicanti. È bastarda, questa cosa, questa infame: è come se si vergognasse di farsi vedere.
A volte penso che abbiano ragione loro: e se fingessi? E se mi fossi inventato tutto?
La testa scatta ancora, riprendo un poco il controllo prima di perdere quello delle palpebre. Strizzo gli occhi, arriccio il naso, non controllo più nemmeno le mie labbra. Posso solo aspettare che se ne vada da sola. Il tremore passa alle gambe, bloccate tra i pedali, tra frizione, freno e gas. Fanno resistenza, o forse faccio io resistenza al mio stesso corpo.
Qualche minuto, un ballo di dita e passa. Mi sento tutte le giunture nuove, in compenso, appesantite ma elastiche, come dopo un allenamento. Sospiro, metto in moto, mi immetto nel traffico.
Non potrà durare ancora a lungo, sarà meglio mettere via la patente, forse. Abituarsi già. Perché quello è il momento in cui mi colpisce di più, in cui sono più vulnerabile, insieme a un solo altro: quando sono in bagno, la mattina, appena mi guardo allo specchio, con gli occhi ancora devastati dal poco sonno e il cuscino disegnato sulla guancia, lì scatta. È quasi un ballo, o forse un attacco di allergia, come uno starnuto incontrollato.
Forse dovrei dirglielo, forse è arrivata l'ora. Chissà come la prenderà, lei, che già si lamenta del troppo caffè. Per fortuna ora il cervello è spento, ha messo il pilota automatico su qualcosa che gli ho dato da fare, e quindi collabora; sono al sicuro, fintanto che mi muovo e mi tengo impegnato. Non importa il tragitto, non è questione di strade già percorse o meno. Forse è solo questione di rimanere da solo coi propri pensieri. Infatti, non appena parcheggio, il polso mi si ribella, la mano si rifiuta di estrarre le chiavi dallo sterzo. Mi tremano i denti, a sforzarmi di controllarlo. L'auto trema, che neanche le volte che ci abbiamo fatto dentro l'amore, quando non avevamo dove stare.
Cretinate di gioventù, tutta quella storia sulla corteccia prefrontale. Cavolate.
Ho la mano a cinque centimetri dagli occhi: trema ancora, ma almeno stringe le chiavi. Ora mi chiede solo di inspirare. Espirare. Inspirare. Espirare. Ma non funziona, fisso l'aiuola a lato del marciapiede sporco, fisso il lampione davanti a me, batto di nuovo la palpebra, è un messaggio in codice Morse di sofferenza.
Pietà.
Il mio corpo si calma, mi lascia scendere dall'auto e chiudere la portella proprio mentre si affaccia la vicina di casa per lasciare il bidoncino dell'umido accanto al cancello.
«Buongiorno!» mi fa, e vorrei avesse ragione.
Le sorrido, alzo un braccio, nemmeno parlo, chissà perché. Ma non ho mai voglia di parlare con la vicina, specie se è uscita giusto un attimo per la spazzatura. Non che abbiamo granché altre occasioni di incontrarci, ergo non parliamo mai.
Con le dita che ancora mi si ribellano imbocco il vialetto - troppo bianco d'estate per i miei occhi - e il portone di vetro, salgo lungo le scale semibuie che sembrano sempre troppo brevi o troppo lunghe, mai il giusto, tra gli odori di frittura della vecchia al secondo piano e lo sferragliare della chitarra elettrica del ragazzetto al quarto, a cui risponde il topo fatto passare per cane del dirimpettaio. Ogni tanto vorrei accadesse loro qualcosa di male, solo una piccola sfortuna. Magari potrei ucciderli. Lo vorrei, a pensarci.
Le chiavi ondeggiano davanti al foro della serratura, tentennano a entrare, una lobotomia al contrario. La porta si apre, l'odore di pulito e di casa.
Il salotto è vuoto, starà meditando nello studiolo attrezzato a palestra, conoscendola. Eccola là, le palpebre chiuse e il petto che si solleva dilatando il top di lycra grigio, al ritmo dilatato di una voce mielosa proveniente dal cellulare. Suona una campanella - una vibrazione cristallina. Lei apre gli occhi e mi guarda.
«Dove sei stato?» mi chiede con dolcezza, chinando il capo di lato e abbozzando un sorriso. Tende ogni muscolo del collo, si rilassa.
«Nulla di che, non ti preoccupare.»
«Sicuro? Ti vedo stanco.»
Deglutisco. «È solo la solita nottataccia.»
Lei stende il collo dall'altra parte, porta le braccia sopra la testa, sposta le gambe sul tappetino azzurro che fino a qualche tempo fa era mio. «Non credi sia il caso di vedere un dottore?»
Ecco, questo è il momento in cui mi dico "Focalizza, respira, non guardare altrove" ma è quello che faccio: butto fuori l'aria e sposto lo sguardo altrove, esattamente dove non dovrei. «Vado in bagno.»
«Mhm... Va bene.»
No, non ho il coraggio di dirglielo, non dopo tutto il tempo che gliel'ho tenuto nascosto. E più questo tempo aumenta, più aumenta il senso di colpa che mi blocca. È un controsenso, me lo dico da solo. Ma è difficile andare contro il proprio cervello.
Ecco, esattamente come uno starnuto: lo spasmo al collo, la narice si dilata, si strizza un occhio, acqua vola su tutto il lavandino mentre mi si ribellano le mani. È inutile che mi afferri il polso, ma è difficile ribellarsi al proprio cervello.
«Ehi, tesoro!»
Grazie, amore mio: il mio corpo si calma.
«Dimmi.»
«Posso entrare?»
«Perché?» Che abbia capito tutto? Dio, sono spacciato.
«Sai, volevo farmi la doccia.»
Ah, ovvio. «Certo, entra pure.» Scontato.
Sono un idiota a non averlo capito, forse perché sospetto che in realtà lei abbia comunque intuito qualcosa. No, sa già tutto, ma lo nasconde perché le faccio pena, persino lei si vergogna a dirlo. Non riesco nemmeno a guardarla per quanto il pensiero mi mette a disagio, anche se si spoglia e ho sempre adorato ammirarla, e lei lo sa e adesso capirà che c'è qualcosa che non torna, nel nostro rapporto.
«Amore...» Mi abbraccia, sento il suo seno contro la schiena, le sue braccia esili sotto il petto. «...sicuro vada tutto bene? C'è qualcosa che non va?»
Potrei farla finita, qui, ora. Dirglielo.
«Mhm...» Sarebbe questione di un attimo, sarebbe così liberatorio. «...No, niente.»
Adesso penserà che io non fidi più di lei, ma l'unica persona di cui non mi fido sono proprio io. Adesso penserà che sia colpa sua e le porti qualche rancore, forse per quella vacanza di tre giorni saltata o forse per l'ultima bolletta pagata in ritardo, chi lo sa. Vorrei solo dirle «No, non è colpa tua, è che il mio corpo e il mio cervello ultimamente sono due persone diverse» ma la lingua me lo impedisce, mi si attorciglia tra l'ugola e le tonsille, mi blocca le corde vocali, come se la boccata d'aria fosse un ciottolo che non riesco a ingoiare, anzi, un pezzo di vetro che scorre lento in gola e recide la carne.
«Sicuro?»
Sospiro. «Sì.»
Lei odia quando sospiro, infatti tentenna prima di allentare la presa e separare i nostri corpi, porta il suo nella vasca e chiude quella tenda che vorrei strapparle e dirle «Guardami, sono malato!»
Ma l'acqua scorre bollente, i vapori invadono la stanza e nascondono lenti il mio riflesso allo specchio e il profilo di lei oltre il suo nascondiglio, ignara, fragile, esposta a ogni mia inclinazione. È una dannata situazione che non può risolversi bene. Cos'ho fatto per lei? Solo procurarle dolore e frustrazione, nell'inutile tentativo di dare un senso a quello che io le nascondo. E nemmeno mi sono accorto che le mie mani hanno nel mentre riaperto il rubinetto, troppo distratto dai miei pensieri maligni. Lo richiudo, sospiro di nuovo.
La mano corre alla leva, riapre l'acqua.
La mandibola scricchiola mentre richiudo, e la mano riapre ancora, e richiudo e mi afferro il polso tremante.
«Tesoro, che fai?»
«Niente. Credo... credo ci sia una perdita.»
Dalla doccia lei non risponde, che sospetti qualcosa è davvero una certezza.
«Ah, cavolo. Non avevo notato nulla, che scema.»
La sinistra vola a schiaffeggiarmi il collo, mi prende a pugni la fronte, con violenza, tre volte.
«Guarda, è solo una mia impressione, forse mi sbaglio.»
Perché all'improvviso mi è così difficile controllarmi? Perché è così difficile controllarlo? Perché non lo so, so che devo levarmi da lì o lo scoprirà, ne sarà inorridita e scapperà di casa, mi lascerà solo qui in questo appartamento troppo grande per me e tornerà solo per riprendere i suoi libri e il portatile con cui lavora, probabilmente accompagnata da suo fratello o da un qualche amico carabiniere.
«Vado a preparare qualcosa da mangiare» le dico, e mi tiro fuori da quell'inferno che siamo noi due chiusi in una stanza.
Se non l'amassi penserei che lo fa apposta, che aspetta solo che io mi tradisca per infierire sulle mie debolezze. Ma sto vaneggiando, me lo conferma la spalla che si contorce e agita il braccio.
"No," mi dice, "È tutto nella tua testa."
Magari fosse solo nella mia testa. È nel mio corpo, mi sta alienando da lui, ne sta facendo un estraneo con cui condivido solo gli atomi e le cellule, con cui condivido questa pelle che pare una prigione, una prigione che vorrei togliermi di dosso, come quel santo scorticato.
Ma questa mia prigione ancora apprezza la frescura del frigorifero, ancora si rasserena affettando pomodori, al sentire lo schiocco e il sibilo della fiamma. Ma il succo che mi bagna le mani è acido, si insinua nelle minuscole spaccature della pelle e brucia come uno spillo sotto l'unghia, come i limoni. Lei adora i limoni, dovrei procurargliene altri. Chissà se li apprezzerà ancora quando me ne sarò andato, chissà se avrà qualcuno con cui condividere le poesie lette all'ombra del fico giù nel cortile, accompagnata dai versi dei tordi scesi a svernare.
Vorrei tornare a quando mi leggeva Pavese, Byron e Shelley, a quando rubavamo i fioroni del tardo maggio mentre lei abbozzava lo scheletro di un disegno con quelle sue matite sempre appuntite, a quando l'amavo senza sapere che le avrei rovinato la vita. Forse lei pensa lo stesso, forse si chiede che ci facciamo ancora qui, a distruggerci a vicenda. Sarebbe meglio farla finita, e ammettere che non possiamo stare bene insieme, non con me che sono malato.
L'unghia dell'indice mi scivola sul legno bagnato, la prima falange supera la seconda prima che io me ne accorga e possa fermare la lama.
«Ma porca...!»
Mi porto la nocca alla bocca, per fortuna aperta solo da un graffio. Il sangue ha un buon sapore, acre come il succo che mi bagna le mani, dolce di vita. È un sapore che non ritrovo più nemmeno nel caffè che mi tiene in piedi sin dalla mattina fino a quando non fingo di chiudere gli occhi e lascio che la testa si scuota nascosta nel letto. Aspetta sempre che lei dorma, quando lo fa, come se la osservasse e infierisse su di me non appena sono da solo. Il cuscino sfrega coi capelli, si schiaccia, il lenzuolo mi stringe il collo.
«Ehi.»
Una mano mi accarezza. Non è la mia, è la sua, perché fingeva di dormire. Bastarda, mi tradisce così, quando sarebbe liberissima di fare ciò che io non riesco a fare. Vorrei solo dormire, e invece ora mi tocca dare spiegazioni che non voglio dare.
«Ehi, tutto bene?» Si avvicina, mi cinge la testa, mi stringe al petto come un bambino, mi coccola. «Ti sentivo agitarti.»
Quindi lo sa, lo ha sempre saputo. Che senso ha allora nascondere tutta questa taranta? Non lo chiedo io, lo chiede il mio corpo che si tende e si inarca rigido tra le sue braccia. La testa scatta tanto impetuosa che per poco non le rompe il naso, ma le strofina la fronte ed è tanto vicina che i nostri occhi si incrociano in un'unica orribile iride scura, solo per un attimo.
Lei si ritrae, si lascia sfuggire un urlo che calma il mio corpo.
Ora che le dico? Come posso fingere ancora che vada tutto bene, che sia tutto a posto? Come posso non scoppiare a piangere e ammettere che sono malato? Vorrei poter dire che rimetterebbe a posto ogni cosa, ma non rimetterebbe a posto nulla, perché ci accorgeremmo del tempo passato a nasconderci tutto, a fingere di essere felici e di non provare dolore, di non causare dolore, dire di volere ancora le cure dell'altro.
«Non è niente, torna a dormire.»
Io vorrei dirle che la amo ancora, che sono debole, che ho sbagliato a nasconderle tutto, ma lei cosa penserebbe di me? Penserebbe che non mi fido, che lei non può fidarsi, che io le mento, penserebbe che viviamo in un mondo di bugie e di sguardi distanti, anche se io ogni mattina cerco le sue dita mentre le mie tremano e battono e scattano come le zampe di un ragno sul materasso.
Lei si rigira, sospira e mi dà le spalle, e il mio polso inizia a scuotersi per la contentezza d'essere di nuovo libero.
«Come ti sei tagliato stamattina?» mi chiede lei.
Dormi, Cristo, dormi. «Il coltello, solita roba.»
Lei sbuffa; vorrebbe essere una risata, credo.
Io credo solo che vorrei dormisse.
Forse dormire per sempre.
«Dici sempre a me di fare attenzione, e poi ti tagli sempre tu.»
«Mi taglio sempre io perché io maneggio i coltelli!»
La testa scatta ancora, lei deve aver sentito lo spostamento del mio corpo. Si alza ancora.
«Ma si può sapere che ti prende?»
«Non è niente.»
«Non è niente? Guardati, alzi la voce, ti agiti, ti irriti per una battuta.»
Non reggo più, vorrei solo smettesse. Vorrei solo silenzio per poter lasciare il mio corpo sudare in pace tutta quella tensione.
«Guardati! Vuoi dirmi che hai?»
«Ti ho detto che è niente!»
Lei urla: «Mi vuoi parlare?»
Ed è qui che sbaglio: mi alzo, mi allontano da lei, cerco una fuga che non posso trovare. È una vita che cerco una fuga non solo da lei ma da me stesso, è una vita che me ne voglio andare, o che se ne vadano gli altri.
«Ma mi vuoi spiegare perché non stai bene?»
«Io sto benissimo.»
«Non è vero. Forse dovresti riprendere con le pillole, non...?»
«No!»
Ridurre tutto alle pillole, come se quelle fossero la causa o la soluzione del problema. Sono solo un dannato palliativo, una panacea che col tempo perde di vigore e riduce il suo effetto. Il mio corpo ha fatto il callo a certa roba, è insensibile, e vorrei che lei lo capisse ma è insensibile quanto il mio corpo.
I miei piedi si sollevano, le ginocchia si alzano e raggiungono la porta, cercano uno spazio vuoto mentre il corpo inizia a dimenarsi senza sosta.
Lei mi corre dietro. Mi abbraccia ancora. «Voglio solo tu stia bene» mi sussurra, ma non è lei che può darmi la cura.
Ma in fondo non è nemmeno lei la causa del mio male, non devo fargliene una colpa.
«Ti prego...» ansimo. «...Non respiro.»
«Vieni in bagno. Lava la faccia.»
Ho l'addome contratto, una strana pressione allo stomaco, una contrazione all'ascella. La pressione mi piega, mi spezza in due, mi blocca il braccio destro al petto, la mano si solleva e mi fissa negli occhi, un'ombra al buio della notte.
Vorrei potesse salvarmi ma riesce solo a spingermi nello studio, nella confusione. Mi appoggio alla scrivania, vorrei solo lei mi stesse lontano, per un secondo, per riprendere fiato.
«Ti prego» mi dice, «Voglio aiutarti. Vorrei che tutto tornasse come prima. Cos'è successo tra noi due?»
«Nulla,» ho solo rovinato tutto. E vorrei ucciderla.
«E allora uccidila» mi dice il corpo, mi parla la mano, la destra che torna davanti al mio volto, stirando anulare e indice in una posa innaturale.
La allontano, ma quella torna, stringe una delle matite rimaste lì sparse. Mi fissa, l'impugna come un coltello, vorrebbe essere utile.
«Non è colpa tua» le dico, mentre la mano trema e cerca di colpirla al petto, ma la trattengo.
Lei scappa via, un passo indietro, abbastanza da rimanere fuori dalla mia portata mentre la mia sinistra blocca il polso destro per un attimo prima di tradirmi anche lei. Non riesco più a parlare, ho il corpo rigido e teso come un cavo d'acciaio. La destra mi fissa ancora, lascia cadere la matita.
La sinistra l'afferra, sa cosa fare. Si solleva, nascosta dietro le lacrime che mi rendono cieco, si porta sopra la spalla e prende la rincorsa. E schizza in un lampo sul collo.
La grafite penetra la carne, recide tendini e vene, brucia come piombo.
Fa male, ma è già buio.
Fa male, ma è la mia salvezza.
Mi dà la pace.―――――
Storia presentata all'interno del concorso Cenerentola ama la notte di CasadelleCivette, sul cui profilo potete trovare tutti gli altri racconti e le poesie presenti in gara, vincitrice dei premi:
- Miglior Trama;
- Migliori Emozioni;
- Miglior Personaggio Protagonista.
STAI LEGGENDO
Apeimeron. Racconti e poesie
Short StoryDal greco "di infiniti giorni", raccolgo qui racconti autoconclusivi e quelle poche poesie che scrivo, in maniera sparsa e senza soluzione di continuità.