Capitolo 4

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But I can't get this shit outta my head
You prolly think that you are better now, better now
You only say that
'cause I'm not around, not around

————

Vorrei che questa giornata non iniziasse mai, solo per continuare ad aspettarla.

Quando i desideri si avverano, qualcosa inizia a mancare. Siamo fatti per sognare, fa paura la realizzazione di una possibile delusione, accorgersi di aver inventato solo una ragione per continuare a vivere. 

Ma non era il mio caso.

Non avevo sognato, avevo dimenticato. Non avevo immaginato, avevo visto. Non avevo progettato, avevo aspettato. Una voce dentro di me mi aveva sempre suggerito l'arrivo di questo giorno, proprio come un Dio sussurra all'orecchio del suo prescelto per renderlo vittima o eroe. Ero già stata la prima, mentre non avevo mai trovato ispirazione nella seconda. Volevo solo pareggiare i conti e non temevo di diventare la cattiva nel mentre. Forse sotto sotto, speravo di esserlo già.

Quella mattina conoscevo con certezza il mio destino. Non lo avevo cercato, ci eravamo trovati a metà strada fra la coincidenza e il desiderio, quel luogo di mezzo dove ogni caso irrisolto trova giustizia.

Dinah entrò in studio prima di chiunque solo per depositare la colazione sulla mia scrivania. Sorridemmo l'un all'altra. Ci ricordava i tempi del college, anni intrisi di nostalgia di cui non parlavamo mai per non pesare il tempo andato. Dinah non aveva mai parlato di Harvard, non era mai stata parola in mezzo ai suoi sogni, ma lo diventò quando mi trasferii dall'altra parte del paese. Non ho mai voluto chiederle se si fosse pentita di aver privilegiato l'affetto ai suoi sogni, ho dato per scontato fossero diventati suoi a forza di viverli. Ma l'abitudine é la strada per perdersi, dunque ho taciuto la domanda per timore della risposta. Non avrei tollerato rinnovata distanza fra me e Dinah, soprattutto quella scavata dal rancore perché sapevo, in quel momento più che mai, essere impossibile percorrerla all'indietro.

«Hai messo qualche calmante nel caffè?» Domandai dopo averne scolato già metà. Questo la diceva lunga su come affrontavo i problemi.

«Oggi non ti vorrei tranquilla nemmeno se lo ordinasse il dottore.»

«Menomale non ci vado allora.» E questo la diceva lunga su come risolvevo i problemi.

Dinah ridacchiò, ma i suoi occhi svolazzavano bassi. Prese fiato prima di rimirarmi. «Come ti senti?»

«Un po' appesantita dalla cena, ma tutto sommato bene.»

«Camila.» Il sospiro si scioglie in un sorriso perché alla fine Dinah tollerava ogni mia resistenza con dolcezza, ed io gliene ero da sempre grata.

Mi sforzai di rimpicciolire l'ansito. Sudavo freddo, ma allo stesso tempo non avevo mai avuto controllo del mio battito come in quel momento. Il terrore può essere piacere se avviene in un cuore addormentato. Lauren era il mio risveglio in un mondo troppo alla mano per la mia smisurata audacia, ero riconoscente alla paura di avermi toccata di nuovo e aver reso il mio spirito pronto a farsi valere. Adesso comprendevo perché la paura era una delle emozioni innate nell'uomo: ci si riconosce forti nei punti deboli.

«Mi sento pronta.» Trassi infine, annuendo assieme a Dinah.

«Non avevo dubbi.» Sorrise affettuosamente, acquietando anche gli ultimi nervi. «Quindi Lauren sa che oggi é il giorno del giudizio?»

Ridacchiai scuotendo la testa: «In realtà no.»

Dinah inarcò le sopracciglia, tossicchiando.

«Ho fatto inoltrare al suo studio un resoconto redatto dal mio primo incontro con Alex, il mio cliente. Ma l'ho fatto firmare a nome di Erika. É la prassi.» Scrollai spalle e sorriso, ma la disinvoltura era tradita dal mio sguardo sfuggevole.

Guilty, your honorDove le storie prendono vita. Scoprilo ora