Capitolo 36

987 68 23
                                    

Importante:

Cerco 4 biglietti ( o solo 2) per San Siro per il concerto di Taylor Swift, vanno bene tutte le date. Non però prezzi astronomici, grazie

🫶

———-

Welcome to the panic room
Where all your darkest fears
Are gonna come for you
Come for you.

————-

Se c'è una cosa nella quale sono brava é non sentire. Quando il mondo si mette a far rumore, io chiudo la porta. Questo feci anche con la mia testa.

In quelle settimane ignorai le chiamate di Lauren, non risposi ai suoi messaggi. Me ne lasciò anche uno in segreteria. Non osavo immaginare cosa avesse potuto dirmi, ma certe sensazioni é meglio viverle nel pensiero quando la realtà non é pronta a conoscerle. Non cancellai il messaggio, ma non l'ascoltai neppure. Per gran parte della giornata dimenticai la sua presenza, dimenticai perfino cosa avesse fatto. Poi, alla sera, quando tornavo a casa mi giravo spesso a cercare qualcosa che non c'era. Ci si può disilludere, ma non si può pretendere di ingannare il corpo: a differenza della mente, non ha un luogo per dimenticare.

Avevo aspettato allora, avevo aspettato arrivasse la rabbia, tanto familiare ai nostri epiloghi. Ma non era arrivata. L'odio non arriva mai se qualcosa dentro di te piange. La prima volta mi ero sentita arida, ma adesso tutto dentro di me si faceva forza. Si mangia spesso le nostre lacrime per tenerci a galla. E io galleggiavo dentro la mia stessa onda.

La parte peggiore era credere di aver già affrontato il male maggiore, ma questo solo perché tutti ci crediamo battuti di fronte ad una ferita e invincibili sulla tomba della sua cicatrice. Ma avevo sbagliato a credere che l'odio fosse il peggiore dei mali; la rabbia conquista mondi interi, ma la delusione spezza tutti i suoi soldati.

Pensavo che odiare Lauren fosse la parte peggiore della mia vita, ma non avevo ancora imparato a desiderarla. É quando qualcuno si fa vedere per chi é oltre il bene che cadono i cieli, non quando un dannato si comporta da tale. La fossa più profonda del mondo, infatti, é stata scavata da un angelo che ha perso il bene. La chiamano inferno, ma sarebbe più consono definirla oblio.

Un tonfo lieve dissolse i miei pensieri. Dinah si fece strada nell'ufficio senza attender risposta.

«Dobbiamo seriamente parlare della tua routine professionale. Sono le quattro e non hai ancora pranzato.» Portò le mani sui fianchi e mi sgridò severamente con lo sguardo, rammentandomi di quando mia madre mi rampognava.

«Forse non ho fame?»

«E forse non mi interessa.» Si strinse nelle spalle, sospingendo la vaschetta già pronta verso di me.

Feci spola fra lei e il pranzo, sorprendendomi di quanto autoritaria divenisse quando si trattava di proteggermi; ero indecisa se riderne o irritarmi.

«Mangerò appena avrò finito qui, ti ringrazio.» Abbozzai un sorriso affettuoso ma reciso, tagliando di netto anche la conversazione.

«Camila,» un sospiro greve l'afflosciò sulla sedia. Si preparava le parole adatte per toccare un punto debole senza farlo sanguinare. «Lo so che stai bene, lo ripeti ogni giorno ormai, ma stare bene non significa per forza essere guariti. A volte si sta bene anche mentre ci si ricompone.»

«Dinah, ho solo saltato il pranzo. Quante volte é successo?» Ridacchiai, distogliendo lo sguardo verso la pratica.

«Camila...» Poggiò una mano sulla mia, sollecitandomi ad alzare lo sguardo su di lei. L'intensità dei suoi occhi mi suggerì di difendermi. «Se vuoi che la picchi, lo farò.»

Guilty, your honorDove le storie prendono vita. Scoprilo ora