Offrirò io

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Lily
2031

La pioggia batteva forte contro il finestrino a cui ero appoggiata. Le gocce si rincorrevano tanto veloci da diventare una lunga e ininterrotta scia bagnata. Se mi concentravo abbastanza, riuscivo quasi a sentirle, fredde e madide.

Come le parole di quel bastardo del mio capo.

Era sempre «mi dispiace» e mai «troveremo una soluzione» e con quelle scuse non mi sarei mai potuta permettere di pagare l'affitto, né la rata mensile dell'auto nuova di zecca che avevo avuto grazie alla firma dei miei. Li avrei delusi perché non avevo voluto deludere i miei amici.

Il cellulare mi tremò tra le mani.

"Andrà tutto bene, ne verremo a capo"

Ma non era così e il mio orgoglio non mi avrebbe mai permesso di rimanere lì. Non potevo permettermelo, quindi visualizzai senza rispondere. L'atteggiamento tipico di chi si sente talmente pesante da non riuscire a trascinare le dita sulla tastiera.

Piuttosto, aprii Spotify e alzai il volume lasciando che la riproduzione casuale decidesse quale colonna sonora si addicesse meglio alla parte peggiore del film, quello di cui il regista non si sarebbe occupato di scrivere il finale.

Quella volta toccava a me e io non sapevo che cosa fare.

Chiusi gli occhi e, immaginando che l'acqua mi accarezzasse la pelle del viso, riuscii a sentirlo mentre si bagnava davvero.
Mi ero trattenuta fin troppo.

Scesi alla penultima fermata dell'autobus, quella che si trovava di fronte al piccolo bar all'angolo. Era tanto piccolo da sembrare una miniatura, con due sedie e un tavolino in legno scuro proprio accanto alla porta.

I tulipani lilla lo circondavano quasi come se fosse un giardino. Se ti trovavi vicino alla porta mentre era aperta, potevi sentire odore di legno e pagine di carta, e assomigliava molto all'idea che avevo di pace.

Un piccolo angolo di paradiso nel caos urbano.

Rimasi ferma lì. Senza muovere un passo.
L'acqua continuava a inzupparmi il cappotto e le scarpe, mentre i capelli mi si appiccicavano al viso.

Non importava quanto facesse freddo e quanto quel posto potesse salvarmi: non riuscivo a muovere nemmeno un passo.

D'un tratto, vidi la mia leggera ombra uggiosa scurirsi sull'asfalto: l'acqua aveva smesso di colpire il mio viso, ma faceva ancora più freddo.

Alzai gli occhi al cielo e lo trovai coperto dalla tela nera di un ombrello. Finalmente il mio corpo si mosse. Non volevo stare lì.

Sentii una pressione sul braccio: qualcuno mi aveva strattonata e spinta di nuovo a riparo.

«Lasciami in pace.»
«Credo sia durata fin troppo.»

No. Non è vero. Non sarà mai abbastanza.

Non risposi, ma finalmente lo guardai. Gli occhi erano neri come l'onice e i capelli scuri erano leggermente più lunghi di come li ricordassi.

Pure il suo viso era cambiato. Era più spigoloso e le labbra meno carnose. Cinque anni erano stati duri con lui.

«E io credo che tu debba lasciarmi in pace.» Mi scrollai il suo braccio di dosso. «Tornatene a casa.»
«Questa é casa mia»
«Non di recente, dico bene?»

Sentii il suo sguardo pesare sulla mia nuca, ma non mi toccò, né mi voltai. Avanzai di un paio di passi poi finalmente fui di fronte alla porta del piccolo bar. La mano si posò lentamente sulla porta, pronta a spingere.

Ora o mai più.

Finalmente spinsi, ma l'odore della carta non bastò a farmi tornare il buonumore.

Pensava che potessi dimenticare tutto. Che potessi mettere una pietra sopra a quanto successo tra di noi, ma era uno sciocco a pensare che sarebbe potuto essere un immaginario possibile.

Mi aveva sedotta, amata e tradita sulla sua scrivania. Nel nostro ufficio.

Ricordavo ancora il suo viso, la sua espressione vuota, la camicia aperta, il rossetto di un'altra sul suo collo.

Non avrei mai potuto perdonarlo. Non quando tutto quello che riuscivo a sentire una volta a casa, erano i suoi gemiti strozzati e il profumo di un'altra sulla pelle.

Giravo il cucchiaino nella tazza del caffè mentre ripensavo a quel Martedì grasso. Al modo in cui avevo vestito il mio cuore d'amianto pur di restare impassibile, quando chiedevo il mio trasferimento.

Non avrei sopportato di vederlo ogni giorno. Ecco perché, quando mi fu negato, fu lui a chiedere l'out out.
L'ottenne dopo un paio di settimane e piano piano, iniziai a lavorare sodo compensando la sua assenza.

Mi portai la tazza alla bocca, ma iniziai a tremare al pensiero che non solo lui fosse tornato, ma avevo perso il posto proprio per quel motivo.

Aveva un ottimo curriculum e questo portò il direttore a decidere il "meglio per il bene dell'azienda".
Peccato che non coincidesse con ciò che era meglio per me, ma ero una donna e ero abituata a quel genere di trattamento.

La porta si aprì e Alex si fermò sull'ingresso, pronto a scuotere e chiudere l'ombrello. Continuai a sorseggiare quel caffè senza curarmene, ma la pioggia si era mescolata al suo profumo e fu estremamente difficile non guardarlo.

Feci tutto ciò che riuscii a fare, ma poi si sedette di fronte a me guardandomi con un'intensità tale da incendiare la stanza.

Quando la cameriera si avvicinò per prendere il suo ordine parlò con voce roca, bassa. Ma non smise di guardarmi nemmeno un'istante.

«Un matcha latte, per favore.» poi aggiunse, «con del ghiaccio, e senza stevia.»

Presi il telefono e iniziai a digitare la famosa risposta al messaggio di prima. Qualsiasi cosa pur di non guardarlo.

"Non é vero, ma apprezzo lo sforzo."

Pochi secondi dopo arrivò un altro messaggio.

"Puoi stare qui. Sei un'amica prima che una coinquilina. Lo sai vero?"

Sorrisi e con la coda dell'occhio, notai Alex fissarmi le dita.

«Guardami.»
Smisi di digitare e guardai il soffitto. «Oh, sei ancora qui.» Dissi ironica. «Dovresti sistemare il tuo nuovo ufficio.»
Scosse la testa, prima di passarsi una mano sul viso.

«Proprio non ne vuoi sapere di ascoltarmi.»
«No. Proprio non mi va di ascoltare un pretenzioso figlio di puttana come te.»

Finalmente lo guardai e i suoi occhi divennero ancora più scuri. «Non ti devo niente, non voglio sentirti.» Incrociai le mani sul tavolo e mi spinsi in avanti. «Non ti voglio vicino e soprattutto non voglio che tu pensi di avere una qualche pretesa su di me.»

Il suo pomo d'Adamo si mosse e lo vidi mentre teneva la bocca leggermente socchiusa. Presi una banconota da cinque, la poggiai sul tavolo e mi alzai.

Prima che potessi raggiungere la porta, sentii di nuovo quella pressione sul braccio. Abbassai lo sguardo sulla sua mano che fece scivolare fino alla mia.

«Un giorno mi darai l'opportunità di rimediare.» Si fermò e sentii quella pressione sul palmo. «Fino ad allora...» si fermò e si avvicinò al mio orecchio per sussurrare.
«Offrirò io.»

Si alzò e se ne andò, lasciandomi completamente in balia del mio altalenante stato d'animo.

La porta si chiuse nel momento in cui aprii la mano, ritrovandomi una banconota da dieci sul palmo.

Maledetto.

Lilies & OTICH• Ben BarnesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora