Imprevisti

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Clelia fu severamente sgridata per essere arrivata in ritardo alle scuderie, e quello ricevuto dallo stalliere non fu l'unico doloroso schiaffo che arrossò la guancia della ragazza quella giornata. La sua mente continuava a tornare allo schiavo che l'aveva salvata da cose che a stento riuaciva ad immaginare, provocandole distrazioni che i superiori poco tolleravano. Proprio a causa del cattivo svolgimento dei suoi compiti, quel giorno non le fu consegnata la solita razione di cibo.

Tornando al suo appartamento, Clelia pensava con preoccupazione alla famiglia...

"Sono stata una stupida a pensare tutto il tempo a Chigaru, ma continuo a non capire come mai si sia sacrificato così... ma ora basta! Se vuoi sopravvivere devi essere egoista Clelia, ricorda! E ora che sono senza cibo dovrò nuovamente andare a rubare..."

Sospirando, ragionò su tutti i rischi che avrebbe potuto correre; solitamente attendeva un paio di giorni per tornare nell'agorà, per non farsi scoprire. Era molto pericoloso commettere un furto nello stesso posto due volte di seguito, l'aveva imparato quando l'avevano quasi scoperta, due anni prima. Ma basta brutti pensieri: avrebbe preso la sua decisione una volta viste le condizioni dei genitori.

Venne accolta dal più grande dei fratellini, che le afferrò il braccio con la sua manina scheletrica e la condusse al capezzale del padre e della madre. Questi ultimi, che solitamente dormivano immobili come statue, quella sera si agitavano nel loro giaciglio blaterando frasi sconnesse, gli occhi girati all'indietro che lasciavano intravedere solo il bianco, iniettato di sangue. I bambini si erano rintanati in un angolo, cercando di stare il più lontano possibile dai genitori. Ecco l'ultimo, orribile stadio della peste: le allucinazioni. Clelia, pur sapendo che prima o poi sarebbe successo, si ritrovò a trattenere le lacrime, cercando di non scoppiare a piangere davanti ai fratelli.

"Sii forte! Sii forte! Devi farlo per loro!" si ripeteva la giovane conficcandosi le unghie nei palmi fino a farli sanguinare, per impedire alle piccole gocce salate di scorrere giù dagli occhi.

Girò lo sguardo verso i bambini, e notò con stupore che il più piccolo veniva allontanato dagli altri due, ed era rannicchiato in un angolino, la testa bruna china sulle gambette magre.

-Cos'è successo? Perché Alexander è lì da solo?
-Ci avevi detto di non toccare mamma e papà, ma prima la mamma ha chiamato Alexander e lui è andato da lei e mamma gli ha dato un bacio sulla fronte e tu avevi detto di non farlo e...
La sorella maggiore sentì le gambe diventare molli, e rovinò a terra, mentre le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento si riversavano veloci sul viso. Il piccolo contagiato iniziò anch'esso a singhiozzare violentemente, e Clelia gli si avvicinò. Facendo molta attenzione a non toccarlo, lo avvolse in una coperta e lo prese in braccio.
-Non ti preoccupare piccolino, non ti succederà niente, ma ora vai a dormire, su. Tranquillo. Tranquillo.

Mezz'ora dopo la ragazza scivolava silenziosa lungo le strade dell'Ellade, nascondendosi nelle ombre della città. Arrivò vicino all'agorà e si accucciò dietro una colonna, guardandosi attorno alla ricerca di eventuali legionari. A parte le solite guardie di ronda, però, il luogo sembrava abbastanza tranquillo. La schiava allora si intrufolò nella piazza, acquattandosi nell'ombra di un carro egizio che vendeva frutta. Alzò una mano sottile e afferrò un paio di grossi e polposi fichi neri. Li infilò in una saccoccia di pelle. Sporse la testa leggermente fuori dalla protezione del buio, cercando con lo sguardo la bancarella con i medicinali.
Il cuore le martellava nel petto, e il suo suono rimbombava in ogni osso, in ogni vena, in ogni cellula. Ogni fruscio dei suoi abiti, ogni rumore ovattato prodotto dai suoi passi, ogni suo respiro le sembravano rumorosi come un colpo di gong, mentre correva verso il lato opposto dell'agorà. Non venne intercettata nel momento in cui attraversava l'enorme spiazzo, nascondendosi agli occhi vigili dei commercianti e dei legionari, così si avvicinò alla meta. Attese paziente che il venditore si allontanasse per discutere con un cliente, poi entrò in azione.
Sporse il braccio sul tavolaccio coperto da una stola grezza di bambù, sbirciando con la coda dell'occhio per essere sicura di afferrare le colorate polveri di laserpizio, alloro ed elleboro* che le sarebbero servite per preparare la medicina per far abbassare almeno un po' la febbre. Le sue dita erano ormai a pochi centimetri dalle ciotole colorate. Ispirò. Trattenne il fiato. Infilò la mano nel primo contenitore. Afferrò una manciata di medicinale. Ritirò velocemente la mano e infilò la polvere in una fialetta di legno. Espirò. Proseguì con la seconda erba. Tutto perfetto. Mancava solo l'ultimo ingrediente: l'elleboro. Ripeté il procedimento, trattenendo il fiato. Ritirò la mano dalla ciotola. Fece per togliere il braccio dal tavolo. C'era quasi: solo venti centimetri. Quindici. Dieci. Cinque.

Una grossa mano callosa calò sul suo polso in una presa ferrea.

Clelia alzò il capo.

E sgranò gli occhi terrorizzata.

*laserpizio, alloro ed elleboro= erbe usate nell'antichità per curare i malati grazie alle loro proprietà. Il laserpizio veniva usato contro asma, epilessia, mal di gola e per far cicatrizzare le ferite; l'alloro per i problemi di stomaco e l'elleboro per le malattie mentali.

Labyrinthum (SOSPESA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora