30 Settembre 2130

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Caro Di,

stamattina ho saltato la scuola. Non so se preoccuparmi o no. Il ginocchio mi fa ancora molto male e mi riesce difficile trovare una posizione comoda quando mi sdraio. Ma più che altro sono i punti che tirano. Riesco solo a dormire a pancia in giù. Hanno cucito la pelle dietro il polpaccio e si sono tutti sorpresi perché dalla mia bocca non è uscito neanche un lamento. Dentro di me sentivo una scarica di lame roventi che trafiggevano la gamba, gli occhi mi bruciavano. Ho deglutito qualcosa come centocinquanta volte per non urlare.

Ma prima che ricominci a contorcermi dal dolore, voglio raccontarti per bene cosa è successo, così poi lo potrò aggiungere al grande libro delle avventure che presto rileggerò quando avrò voglia di ridere. Spero.

Mi sono appena guardata la mano con cui non sto scrivendo: è gonfia e gialla di disinfettante, una specie di grosso limone deforme. Hanno detto che presto si vedrà il nero dei lividi diventare verdognolo, poi viola e infine di nuovo giallo. Gli infermieri erano tutti gentilissimi, e mi hanno fatto un sacco di domande: li osservavo scrivere sulle loro cartelle tutte le annotazioni alle risposte che davo. L'infermiera che mi ha medicato la mano aveva degli occhiali dalle lenti spessissime, al centro della montatura c'era una lampadina che mi ha annebbiato la vista almeno un paio di volte. Mi premeva la fronte con entrambi i pollici, dicendomi di fissare la luce.

"Ti fa male qui?"

"No."

"Hai le vertigini?"

"No. Mi fanno male gli occhi."

"Ok." Aveva spento quella specie di faro contro di me. L'ho fissata mentre scriveva nella cartelletta.

Appena arrivata l'ambulanza per portarmi al pronto soccorso, non avevo avuto neanche il tempo di raccogliere il mio zaino da terra. Mi chiedevo se giacesse ancora buttato su quel marciapiede polveroso. Ero stata letteralmente catapultata in una sala, dove una squadra di medici aveva fatto scorrere le ruote del lettino su cui mi trovavo, ben saldata da delle cinghie che passavano attorno alla mia testa e ai miei fianchi, mentre le gambe erano completamente fasciate e sorrette da un paramedico, credo quello che per primo mi aveva soccorso.

È incredibile la velocità con cui le cose sono avvenute. Un attimo prima sono lì che corro sicura con il mio monopattino, nuovo di zecca, in perfetto orario con le mie compagne di scuola, e un attimo dopo, una distrazione. Forse un sasso. Non l'ho visto e ci sono salita sopra con le ruote.

"Cosa abbiamo qui?" ha chiesto il dottore, senza guardarmi, ma osservando una cartella con scritto dietro il mio nome.

A quel punto, il paramedico ha preso la parola.

"Femmina, diciassette anni. Ferita al polpaccio destro, mano sinistra contusa, piccole ferite superficiali intorno agli arti superiori."

"Rx al torace e controllo eventuale trauma cranico."

Ricordo di aver sbarrato gli occhi. Il paramedico si è voltato verso di me, era gentile e rassicurante. Aveva un cartellino con scritto Abel sul camice azzurro.

"Ti portiamo a fare questa rx. Coraggio! Sicura di non aver battuto la testa?"

"Sì, sono caduta sul braccio." L'ho mostrato ad Abel cercando di sollevarlo, ma era bloccato dalle cinghie e in ogni caso mi faceva un male cane.

"Puoi essere più specifica?"

"Sono caduta dal monopattino. Di lato. Ho parato il braccio per proteggermi il viso." Ho ripetuto. Quanto mi è costato dire che ero caduta dal monopattino! Tutti quelli che mi hanno visto. Anche delle altre classi. Sono certa che da oggi per i prossimi dieci anni non si parlerà d'altro in città.

Ventunotrentuno - I figli dell'albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora