5 Novembre 2130

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Caro Di,

le giornate sembrano accorciarsi sempre di più. Fa buio molto presto, e quando il sole va via, l'aria si fa terribilmente fredda e umida.

Eppure, ogni giorno sembra aggiungere delle ore in più, scorre lento, non passa mai. Non passa mai fino all'ora del coprifuoco: dopo il coprifuoco vola.

Con Alyssa e Cristiana abbiamo montato un piccolo stendino per asciugare i nostri maglioni e le nostre felpe il più vicino possibile ai termosifoni, centralizzati, delle camere. Dopo che rientriamo in casa, la notte, sono letteralmente da strizzare. Non è normale avere questi abiti zuppi per chi esce solo di giorno. E io ho solo pochissimi cambi. Dobbiamo trovare il modo per non bagnarci così, l'inverno sta appena cominciando e rischiamo di non dover uscire per molto tempo. Rischiamo di perdere questa cosa che stiamo creando.

Sto male.

E non è solo perché ho un raffreddore pazzesco. È un male che viene da qualche altra parte, non nel naso, o nella gola.

Stamattina in classe ho avuto solo due stelle per le olimpiadi della matematica: non sono concentrata, gli occhi si chiudono da soli. La professoressa mi ha trattenuto per qualche minuto, dopo che erano uscite tutte le mie compagne.

"Questo risultato non è da te, cara. Ci siamo preparate molto bene per questa occasione, ci contavo molto."

"Lo so." Ho risposto, abbassando gli occhi. Dio, se mi bruciavano. "Mi dispiace molto, professoressa Liana."

Mi ha preso una mano, poi l'altra tra le sue: "Sono freddissime." Ha fatto un piccolo sospiro, materno, poi ha portato la sua mano alla mia fronte, stringendo le labbra e aggrottando le sopracciglia: "Credo tu abbia preso una piccola influenza." Ha staccato dei fogli, facendo piccoli rumori scattanti con la lingua, e mente scriveva ha detto: "Ti faccio accompagnare in ambulatorio, magari se siamo fortunate puoi stare a casa un paio di giorni e riguardarti." Non ha aspettato la mia risposta, e ha chiamato subito uno dei vigilantes che girellava nel nostro corridoio, pronto a intervenire per qualunque cosa accadesse nell'istituto della sua giurisdizione. Uno a caso. Ma sempre lo stesso.

"Costantino, puoi accompagnare la mia studentessa per un piccolo controllo?" sbaglio o aveva fatto quell'espressione, quelle labbra piegate all'ingiù in un ghigno spietato? Non mi ha guardata, ha risposto alla mia insegnante e ha semplicemente eseguito il comando. Abbiamo camminato in quel corridoio ormai deserto, il silenzio scandito dagli scarponi del vigilante e dalle mie scarpe da ginnastica. Guardavo fuori dalle finestre della mia scuola, tutti gli studenti stavano rientrando nelle loro case, verso le loro vite normali: avrebbero studiato, consultato i loro progressi, e dopo avrebbero preparato il loro fine settimana per stare con le loro famiglie.

"Potevamo evitare di arrivare a questo punto, non credi?" Ha sussurrato, senza guardarmi.

Potevamo evitare? Ho ripetuto nella mia testa. Il pavimento si è fatto improvvisamente liquido. Il taser agganciato alla sua cintura sbatteva minaccioso contro il suo fianco.

"Io ho..." avevo pensato velocemente a una giustificazione, qualsiasi cosa che evitasse ulteriori approfondimenti "...dimenticato di indossare la canottiera sotto il maglione, ieri, signore. Costantino. E così..."

Costantino si era fermato, continuando a guardare davanti a sé. Poi l'ho sentito sghignazzare a bocca chiusa, e ha proseguito. Ho ripreso a respirare normalmente, seguendo i suoi passi.

Nessuno ci ha visti. Nessuno ci ha visti ieri sera. Il vigilante mi stava portando veramente in infermeria. Stava facendo veramente qualcosa che gli era stato chiesto. Mi sono imposta di comportarmi normalmente.

Morale: ho due giorni di assenza giustificata, come la chiamano loro. Due giorni in cui questa ricetrasmittente, da cui non mi separo mai, avrà ore molto difficili, perché non ci saranno pause al suo utilizzo.

L'altra sera Lorenzo mi aspettava seduto su un blocco di pietra granita, poco distante dall'ingresso del bunker; mi aveva vista arrivare prima che lo distinguessi io stessa, nell'oscurità delle tre di notte, perché i suoi occhi puntavano nella mia direzione. Ma non si era mosso. Ha acceso solo la torcia, facendo attenzione a non puntarla proprio contro di me.

"Ciao." Gli ho detto. E mi sono stretta nelle spalle.

Così lui si è alzato, costringendomi a fare un passo indietro per guardarlo meglio dritto negli occhi. Sempre quella faccia indecifrabile. "Camminiamo, ti va?" Mi ha fatto. Ho risposto di sì.

Abbiamo camminato per un po', seguendo le tracce di un sentiero che si inerpicava tra le radici nodose degli alberi, e sotto i nostri piedi sentivamo il fruscio del vento che veniva da molto vicino a dove ci trovavamo. Veniva dal mare. Non mi aveva toccato prima di arrivare su quella salita, poi d'istinto ha allungato le braccia per non farmi inciampare, e le mie mani si sono appoggiate immediatamente sui suoi avambracci tesi e robusti, come per scansarlo.

"Scusa." Mi ha detto.

"Ce la faccio, grazie." Era difficile muoversi in quel punto. Il polpaccio non rispondeva bene ai miei comandi, non ci potevo fare niente. Ero scocciata. Ma non per lui.

Alcuni fasci di luce della luna rischiaravano il resto dello stradello che in quel momento stavamo percorrendo.

Lorenzo ha ricominciato a parlare solo dopo un po', quando eravamo abbastanza lontani dal centro abitato da potersi sentire sicuro. La sua tensione è calata leggermente, come se l'avesse abbandonata per strada. Perché lo so? Perché è successa anche a me una cosa del genere. Ogni metro che ci separava da quelle case e da quegli edifici tratteneva un pezzo di noi, quello più nervoso, quello più brutto. Come se ci stessimo spogliando di abiti che non ci appartenevano e cominciasse a emergere la parte più vera di noi stessi.

Gli ho raccontato delle storie che scrivo, lui ascoltava. Eravamo appoggiati su una grossa trave di legno marcio che forse in passato doveva essere una panchina; davanti a noi, le tamerici ondeggiavano leggermente, nascondevano il mare, fermo come una fossa nera, pronta a inghiottirci. Ricordo che mi sono stretta più volte in me stessa per l'aria gelida che mi pungeva il naso, ma non mi sarei mai alzata da quella panca senza di lui.

Poi però una folata di vento mi ha fatto starnutire e Lorenzo si è tolto la sua felpa per coprirmi le spalle. Era gigantesca su di me. Mi ha invaso il suo odore, mi ha stordito. Così, per non rischiare di rimanere risucchiata da quel calore, emanato un attimo prima dal suo corpo, ho sollevato un braccio sotto la sua felpa per appoggiarne un'estremità sulla sua spalla. L'ho sentito irrigidirsi, all'inizio.

"Una capanna." Ho detto, sghignazzando vicino a lui. Il suo fiato era caldo sul mio viso. Era caldo, ma anche freddo. E giuro che quello che sentivo era una sensazione simile a uno svenimento, stava crollando tutto intorno a me, anche il mio corpo si stava sgretolando. Per un po' abbiamo continuato a parlare.

Un ronzio ci ha interrotti. Lorenzo ha cambiato faccia. Io mi sono guardata intorno.

"Shh." Mi ha fatto. La sua mano rassicurante sotto il mio collo, il petto che sussultava. Un drone. Lo sentivamo al di là delle nostre teste, non molto lontano. Percorreva le superfici dei terreni che delimitavano le zone abitate. Non eravamo al sicuro, lì.

"Andiamo via." Ha fatto, quando il rumore si è fatto via via più lontano. "Seguimi."

Non so come siamo usciti da lì. Ma in poco tempo ero a casa, sotto le coperte. Una montagna di fazzoletti appallottolati sotto al cuscino.

R.

Ventunotrentuno - I figli dell'albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora