1 Novembre 2130

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Caro Di,

per la prima volta in dieci anni credo di non essere molto in grado di trovare le parole per dirti come mi sento e cosa mi è successo. In realtà, riflettendo bene, non credo di aver mai scritto quello che adesso sto per scriverti, quindi per favore, non strapparti da solo le pagine o non scomparire nel nulla perché è molto importante che io rilegga ciò che ho appena fatto.

Ieri notte, quando ti ho lasciato nel tuo posto, al riparo da occhi indiscreti e da mani troppo lunghe, ho raggiunto le ragazze nel pianerottolo, abbiamo spento tutte le luci, anche quelle delle scale, poi siamo passate nel piccolo cucinotto dove si trova l'unica finestra che dà sulla stradina esterna del campus. L'unica via di uscita che possiamo utilizzare. Non una parola, solo uno scambio di sguardi. Il mio cuore batteva così veloce che credevo mi corresse via, fuori dal petto. Per almeno venti volte ho pensato di tornare indietro, dopo essere uscite di casa, nel buio più totale.

Ricordo che avevo freddo, mi stringevo nelle spalle, con entrambe le mani nella tasca centrale della felpa, cappuccio sulla testa. Seguivo lei. Passi cauti ma decisi. Alyssa sembrava molto sicura sul dove andare, e Cristiana girava a destra e a sinistra la testa, muovendosi furtiva, e drizzava le orecchie ad ogni foglia che cadeva dagli alberi.

Abbiamo sorpassato l'ultima fila di casette, raggiungendo una piccola radura, poi siamo entrate in una macchia, ho sentito chiaramente qualche ramo graffiarmi contro le gambe.

"Ok, possiamo usare le torce adesso." Ha detto Alyssa.

Abbiamo ripreso a respirare.

"Che cazzo abbiamo fatto?" Cristiana si era presa il viso tra le mani. Io ho guardato Alyssa chiedendole qualcosa tipo: "E ora?"

"Andiamo lì. E aspettate un attimo."

Ci ha indicato una fila di piccoli arbusti. Abbiamo spento le torce, e cominciato a sentire delle voci. Ho sentito la mano di Alyssa sulla mia bocca. "Shh. È tutto ok. Aspettate un attimo." Ha ripetuto.

Aveva raggiunto suo fratello, io e Cris nascoste ad osservare la scena. L'oscurità ci permetteva appena di distinguere tre figure vicino alla nostra amica.

"Che cazzo significa questo?!" non era Giacomo, era un altro.

Con Cristiana ci siamo scambiate un'occhiata, nessuna delle due aveva voglia di commentare, ma ricordo distintamente, poi, la voce di suo fratello.

"Ragazzi, lei è mia sorella Alyssa."

"Ciao."

"Ciao, Alyssa." Il tono di risposta non era affatto amichevole "Giacomo, quando pensavi di dirci che avresti spiattellato ogni cosa alla tua sorellina, eh? Vuoi farci fuori tutti?"

"Ci uccideranno!" sentivo piagnucolare un altro.

"Non è venuta da sola."

"Non è venuta da sola?! Perfetto!" aveva ripetuto canzonatorio il primo ragazzo.

"Moriremo male!"

"Finiscila, Nicolas!"

A quel punto, siamo uscite. Già pietrificate da giorni, ora lo eravamo ancora di più.

Ci hanno guardate.

Io l'ho guardato. Era lui.

Il tempo pareva fermarsi. Noi sei in un bosco, torce accese che illuminavano in basso. E lui.

Mi stava fissando. Ho sollevato piano la mano per togliermi il cappuccio dalla testa, lentamente. Poi l'ho nascosta di nuovo nella tasca della felpa.

"Ok." Ha fatto, aprendo le mani davanti a sé. La sua espressione era indecifrabile. Mi sono data un'occhiata intorno ma ho continuato a fissarlo "Ok. Ricominciamo. Io sono Lorenzo." Ha teso una mano subito davanti a me. Dita lunghe e tese. Fino a quel momento non mi ero mai chiesta veramente come fosse toccare un ragazzo, non lo avevo mai fatto, non c'era alcuna possibilità di avvicinarsi, nemmeno sfiorarsi.

"Regina." mi sono mossa molto piano, quasi a rallentatore. Ma il tutto deve essere durato qualche frazione di secondo, credo.

Dopo le presentazioni, Giacomo spiegava il piano, alternandosi con Lorenzo. Lorenzo quando parlava, guardava me, quando stava zitto, guardava me. Nessuno poteva dirci di smettere o di continuare a camminare sempre avanti. Avrei voluto che questo piccolo cerchio durasse per sempre. Ma si parlava di un buco nel terreno o qualcosa del genere. Lorenzo l'aveva scoperto e voleva scendere a vedere cosa ci fosse.

"Scendo per primo." Ha detto. "Nessuno o nessuna di voi è obbligato a seguirmi."

"Io lì sotto non ci vado!" ha detto Cristiana, incrociando le braccia. Nicolas aveva annuito, comprensivo.

"Scendo anch'io." Ho detto. Mi ha aiutata ad avvicinarmi con la torcia all'entrata, si vedevano poche scalette di ferro, che scendevano in verticale nel terreno, in una voragine nera che pareva infinita. Lui era sotto di me, io scendevo piano sopra di lui. L'ho sentito istintivamente toccare la mia gamba appena con la mano.

"Non può andare peggio, credimi." Gli ho detto, riferendomi al polpaccio.

"Non ti dà fastidio scendere praticamente in verticale?"

"Tantissimo. Ma posso farcela." Mi sono fermata mentre lo sentivo scendere dalla scala. Eravamo arrivati.

"Coraggio." Ha proteso la mano sulla mia schiena per aiutarmi, e mi ha praticamente sollevato girandomi verso di lui.

Le sue braccia erano attorno al mio corpo, i nasi a meno di due centimetri. Poi sono scesa e mi sono resa conto che la mia testa arrivava appena sotto il suo mento, ho alzato gli occhi sui suoi. Era così buio che nemmeno le torce ci aiutavano gran che. Gli ho detto qualcosa tipo Ciao, ora non ricordo bene, ero piuttosto confusa, e lui forse ha sorriso, ma non mi ha risposto. Stavano scendendo gli altri. Alla fine, c'era anche Cristiana, mi ha raggiunto intrecciando le sue dita con le mie. "Sei pazza anche tu. E anch'io. Se non ti avessi vista scendere là sotto nel nulla più totale credo che non avrei mai trovato il coraggio di scendere queste scalette infernali." Ha sghignazzato con un bisbiglio. Ci veniva strano parlare normalmente.

La porta del bunker era a pochi passi da noi, lo spazio era angusto. Ci siamo aiutati con le torce per capire come forzarla. Dentro ci sono poche stanze, un piccolo bagno chimico che emana un odore putrido, ma sembra che funzioni sempre. Ci siamo sparpagliati per trovare un'illuminazione migliore delle nostre torce, e ognuno di noi chiamava gli altri quando trovava qualcosa. Ci sono provviste in scatola con nomi mai sentiti prima, delle riviste, dei libri. Una scatola che non si apre, ma ci puoi appoggiare sopra degli oggetti rotondi, neri e piatti: un giorno si capirà. Giacomo la stava studiando, sembrava molto interessato.

Lorenzo apriva tutti gli sportelli dei mobili. Ha tirato fuori delle bottiglie di vetro, e le ha appoggiate sul pavimento.

La camera da letto ha creato un po' di scompiglio tra noi presenti, credo ci siano delle ossa, come quelle che si studiano ad anatomia.

Mi ha colpito una foto: un uomo e una donna, le loro bocche si toccano, e sono parallele ai loro nasi. Ho preso la cornice staccandola dal muro scalcinato, osservandola. Mi ricordano mamma e papà, mi ricordano qualcosa che non ho mai capito veramente.

Cristiana era in piedi alla porta a osservarci. "Dobbiamo andare." Ha detto. "Torniamo un'altra volta. È tardi."

Torneremo.

Non posso più scrivere, ci vediamo domani. Adesso è tardi davvero, devo recuperare le ore di sonno o non resisterò fino al prossimo incontro.

Posso solo confessarti che Lorenzo ha un buon odore, una bella voce. Aver parlato con lui, aver catturato il suo sguardo, adesso che sono seduta di nuovo qui alla mia scrivania, non mi sembra reale, come se non fosse mai successo. Come se fosse una mia invenzione. Ma domattina quando andrò a scuola, lui sarà a tre metri da me, come ogni giorno, e come se non ci conoscessimo, cammineremo guardando davanti a noi.

Grazie, caro Di, per ascoltarmi sempre.

R.

Ventunotrentuno - I figli dell'albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora