Una pessima versione del Sangue Viennese di Strauss riempiva il locale insieme a un ancora peggiore accompagnamento al pianoforte.
Faceva caldo, era brillo, la testa gli ronzava, aveva un disperato bisogno di acqua e il bar gremito di persone emanava uno stantio odore di alcool e sudore.
Dapprima la serata si era orientata verso un locale perbene, ma quello purtroppo aveva chiuso i battenti con l’ultimo valzer alle undici di sera, e Hector aveva insistito caparbio sul fatto che la serata non sarebbe potuta terminare tanto presto.
Così, balzati in carrozza a passo malfermo, avevano trovato una locanda zeppa di borghesi che ridevano troppo forte, le cui sedie erano scomode e la birra aveva un rapporto qualità prezzo truffaldino.
I bicchieri mezzi vuoti restavano per minuti sui tavoli traballanti prima che qualcuno dei camerieri indaffarati si degnasse di ritirarli, il soffitto era basso e l’illuminazione giallognola avrebbe reso cieco un cecchino. Persino il bancone, ampio ma non lucidato, contribuiva a conferire al locale quell’aria di pretenziosa mediocrità. Per non parlare del palchetto su cui si stavano esibendo quegli indegni portatori di strumento.
«Dobbiamo parlare.»
Le parole, appena udibili a causa della musica, gli fecero stringere il cuore nel petto. Sentì una fitta al torace e l’ansia per il discorso che lo attendeva iniziò a grattargli le viscere.
Nonostante questo, sorrise.
«Miracolo» rispose, mantenendo un tono di voce deciso perché superasse la disdicevole strimpellata al pianoforte e le risate e chiacchiere degli avventori del bar. «Credo di non averti mai sentito pronunciare queste parole prima, dovrei appuntarle sul mio diario. Caro diario, il mio ingrato fratello per una volta non mi ha chiesto di tacere ma di parlare.»
«Il tuo problema non è che parli troppo, ma che parli solo di futilità. Ora, per esempio, vorrei discutere con te di una questione importante e tu me lo impedisci.»
«Al contrario, fratello, anche io vorrei esporti una questione importante. Ritengo che questi musicanti – chiamarli musicisti è un’offesa alla categoria – dovrebbero cambiare mestiere al più presto.»
«Guardami, per favore. Non scherzo.»
«Perché farlo? Sono già abbastanza occupato a giudicare con educato riserbo quell’assassino di pianoforti. Non ho tempo per giudicare anche te, e se ti guardassi ti giudicherei di sicuro.»
«Alex, finiscila con questa storia del pianoforte. Guardami, ti prego.»
Alexander sospirò e a quelle parole gli rivolse il suo sguardo. Era più forte di lui, non poteva farci niente, quella era l'unica chiamata a cui non sarebbe mai riuscito a resistere.
Sua madre lo aveva sempre chiamato Alexander, i suoi compagni di collegio lo chiamavano per cognome, la sua futura moglie richiamava la sua attenzione con vari nomignoli poco fantasiosi che variavano nel ventaglio completo che passava da “caro” a “tesoro”, ogni altra persona che potesse incrociare lo chiamava “milord” o, i meno educati, “signore”.
Permetteva solo a due persone in tutto il creato di chiamarlo “Alex”, e per sua sfortuna queste erano anche le due persone che amava di più. Quel nome era il più serio dei richiami, per lui.
«Che vuoi, Hector?»
Fissò gli occhi in quelli chiari di suo fratello, e notò che il suo sguardo severo aveva accennato a vacillare.
Durò un attimo, poi l’uomo aggrottò la fronte e gli disse, «C’è qualcosa di strano in questo matrimonio.»
Lui si strinse nelle spalle con aria distratta. «Tutti i matrimoni sono strani.»
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Vita e Dolori di Alexander Ulysses Woods
RomancePrimavera 1884. Lord Alexander Ulysses Woods è alla vigilia delle sue nozze. Ha diciotto anni, l'amore, un discreto patrimonio, una villa dotata di parco e tutto ciò che un ragazzo della sua età potrebbe desiderare. Unico problema? Il matrimonio è...